Benvenuto Cellini, Vita
Libro I - Capitolo CXXVI
In questo tempo il vescovo di Pavia, fratel del conte di San Sicondo, domandato monsignor de' Rossi di Parma, questo vescovo era prigione in Castello per certe brighe già fatte a Pavia; e per esser molto mio amico, io mi feci fuora, alla buca della mia prigione, e lo chiamai ad alta voce, dicendogli che per uccidermi quei ladroni m'avevan dato un diamante pesto: e gli feci mostrare da un suo servitore alcune di quelle polveruzze avanzatemi; ma io non gli dissi che io avevo conosciuto che quello non era diamante; ma gli dicevo che loro certissimo mi avevano avelenato da poi la morte di quell'uomo da bene del Castellano; e quel poco che io vivessi, lo pregavo che mi dessi de' sua pani uno il dí, perché io non volevo mai piú mangiare cosa nissuna che venissi da loro. Cosí mi promise mandarmi della sua vivanda. Quel messer Antonio, che certo di tal cosa non era consapevole, fece molto gran romore e volse vedere quella pietra pesta, ancora lui pensando che diamante egli fussi; e pensando che tale impresa venissi dal Papa, se la passò cosí di leggieri, considerato che gli ebbe il caso. Io m'attendevo a mangiare della vivanda che mi mandava il Vescovo, e scrivevo continuamente quel mio Capitolo della prigione, mettendovi giornalmente tutti quelli accidenti che di nuovo mi venivano, di punto in punto. Ancora il ditto messer Antonio mi mandava da mangiare per un certo sopra ditto Giovanni speziale, di quel di Prato, e quivi soldato. Questo, che m'era mimicissimo e che era istato lui quello che m'aveva portato quel diamante pesto, io gli dissi che nulla io volevo mangiare di quello che egli mi portava, se prima egli non me ne faceva la credenza: per la qual cosa lui mi disse che a' Papi si fanno le credenze. Al quale io risposi, che sí come i gentili uomini sono ubrigati a far la credenza al Papa; cosí lui, soldato, spezial, villan da Prato, era ubrigato a far la credenza a un Fiorentino par mio. Questo disse di gran parole, e io allui. Quel messer Antonio, vergognandosi alquanto, e ancora disegnato di farmi pagare quelle spese che il povero Castellano morto mi aveva donate, trovò un altro di quei sua servitori, il quale era mio amico; e mi mandava la mia vivanda, alla quale piacevolmente il sopra ditto mi faceva la credenza sanza altra disputa. Questo servitore mi diceva come il Papa era ogni dí molestato da quel monsignor di Morluc, il quale da parte del Re continuamente mi chiedeva; e che il Papa ci aveva poca fantasia a rendermi; e che il cardinale Farnese, già tanto mio patrone e amico, aveva aùto a dire che io non disegnassi uscire di quella prigione di quel pezzo: al quale io dicevo, che io n'uscirei a dispetto di tutti. Questo giovane dabbene mi pregava che io stessi cheto, e che tal cosa io non fussi sentito dire, perché molto mi nocerebbe; e che quella fidanza, che io avevo in Dio, dovessi aspettare la grazia sua, standomi cheto. A lui dicevo che le virtú de Dio non hanno aver paura delle malignità della ingiustizia.
Libro II - Cap. XLIX
Andatomene a Parigi, sí come m'aveva detto il Cardinale, feci di mirabil casse per quei tre vasi d'argento. Passato che fu venti giorni, mi messi in ordine, e li tre vasi messi in su 'n una soma di mulo, il quale mi aveva prestato per insino in Lione il vescovo di Pavia, il quale io avevo alloggiato di nuovo innel mio castello. Partimmi innella mia malora, insieme col signore Ipolito Gonzaga, il qual signore stava al soldo del Re e trattenuto dal conte Galeotto della Mirandola, e con certi altri gentiluomini del detto conte. Ancora s'accompagnò con esso noi Lionardo Tedaldi nostro fiorentino. Lasciai Ascanio e Pagolo in custode del mio castello e di tutta la mia roba, infra la quale era certi vasetti cominciati, i quali io lasciavo, perché quei dua giovani non si stessino. Ancora c'era molto mobile di casa di gran valore, perché io stavo molto onoratamente: era il valore di queste mie dette robe di piú di mille cinquecento scudi. Dissi a Ascanio, che si ricordassi quanti gran benefizi lui aveva aúti da me, e che per insino allora lui era stato fanciullo di poco cervello: che gli era tempo omai d'aver cervello da uomo; però io gli volevo lasciare in guardia tutta la mia roba, insieme con tutto l'onor mio; che se lui sentiva piú una cosa che un'altra da quelle bestie di quei Franciosi, subito me l'avvisassi, perché io monterei in poste e volerei d'onde io mi fussi, sí per il grande obrigo che io avevo a quel buon Re, e sí per lo onor mio. Il ditto Ascanio con finte e ladronesche lacrime mi disse: - Io non cognobbi mai altro miglior padre di voi, e tutto quello che debbe fare un buon figliuolo inverso del suo buon padre, io sempre lo farò inverso di voi -. Cosí d'accordo mi parti' con un servitore e con un piccolo ragazzetto franzese. Quando fu passato mezzo giorno, venne al mio castello certi di quei tesaurieri, i quali non erano punto mia amici. Questa canaglia ribalda subito dissono che io m'ero partito con l'argento del Re, e dissono a messer Guido e al Vescovo di Pavia che rimandassimo prestamente per i vasi del Re; se non che loro manderebbon per essidrietomi con molto mio gran dispiacere. Il Vescovo e messer Guido ebbon molto piú paura che non faceva mestiero, e prestamente mi mandorno drieto in poste quel traditore d'Ascanio, il quale comparse in su la mezza notte. E io che non dormivo, da per me stesso mi condolevo, dicendo: - A chi lascio la roba mia, il mio castello? Oh che destino mio è questo, che mi sforza a far questo viaggio? Pur che il Cardinale non sia d'accordo con Madama di Tampes, la quale non desidera altra cosa al mondo, se non che io perda la grazia di quel buon Re!