Impie vexatus est
Quando si parla dei Rossi si pensa alla loro determinante importanza nella storia e nella politica medievale del territorio parmense. Chi non ricorda le figure e le imprese di Bernardo di Rolando, l’amico nemico di Federico II di Svevia, oppure quelle di Pietro Maria I, di pace autor e della Patria padre, per aver soggiogato i castelli ribelli a Parma?
Purtroppo, dopo la campagna milanese del 1482 e la quasi contemporanea guerra delle quattro squadre, la Rubea Gente conosce giorni tristissimi, al punto da far credere a qualcuno persino estinto il Casato.
Ci si dimentica che di lì a qualche anno, agli albori del Cinquecento, i Rossi risollevano la testa legandosi alle più importanti famiglie dell’epoca. Addirittura con il matrimonio di Troilo I e Bianca Riario ne agganciano tre: i Riario, gli Sforza, i Medici. Bianca è, infatti, figlia di Caterina Sforza e di Girolamo Riario, nonchè sorella uterina di Giovanni de' Medici, il mitico condottiero delle Bande Nere. Il loro rampollo Pier Maria II (1503-1547) è cugino del Duca di Firenze e Granduca di Toscana Cosimo I, lui che nel 1523 si lega ai Gonzaga, sposando Camilla, cugina del duca di Mantova Federico II.
Il periodo rinascimentale sansecondino, con tante vestigia lasciate nella superba, quanto mutila, principesca dimora non è mai stato adeguatamente studiato: un poco l’arte, quasi nulla la storia e la politica.
La forte contrapposizione dei Rossi con il potere costituito ha costretto gli storiografi a dimenticare, a cancellare, a nascondere pure l'evidenza dei fatti e delle testimonianze superstiti. Il critico d'arte inventa così le attribuzioni, mentre lo storico confonde personaggi omonimi, al punto che artisti farnesiani devono necessariamente lavorare alla fabbrica cinquecentesca sansecondina, dimora signorile di Antonia Torelli, moglie di Pier Maria I, entrambi vissuti nel quattrocento!!
Il secondogenito di Troilo I e Bianca Riario, Giovan Girolamo, è figura di grande spessore politico, letterario e storico. Viene fatto protonotario apostolico da Leone X nel 1517, chierico di camera da Clemente VII nel 1526; lo stesso Papa lo nomina nel 1530 Vescovo di Pavia. In seguito ritroviamo Giovan Girolamo anche al servizio di Papa Paolo III, impegnato in rischiose missioni diplomatiche, sino al 1538, prima di esserne gravemente angheriato. Successivamente con Giulio III, dal 1551 al 1555, Giovan Girolamo, riabilitato, viene nominato Governatore di Roma.
Troilo II lo vuole nella Sala di Adone, ornato dell’alloro poetico, in posizione preminente sopra il camino, in un logico sincero ricordo di parenti importanti e benemeriti, certamente lui, personaggio scomodo per il potere che vuole vedere nell’effigie un estraneo Gian Giacomo Trivulzio.
[Jo. Hieronymus] ... sub Clemente VII Camerae (ut vocant) apostolicae clericatum et Ticinensem episcopatum meruerat, denique sub eodem et successore Paulo III in maximo diu honore et existimatione habitus inter ceteros sacratos antistites conspicuus apparuerat, paucorum invidorum maledicentia in odium pontificis deductus per septemnium modo in mole Hadriani detentus, modo Tiphernate relegatus, adeo impie vexatus est, ut praeter bona ei ablata et dignitates, dubius etiam saepe fuerit et anceps de vitae suae exitu.
Tratto da Federici Rosci Petri Mariae junioris filii Elogia virorum rosciorum, il passo mostra la fulminea carriera e il rapido declino della stella del fratello del Conte di San Secondo Pier Maria II che, a ragione, Sauro Rossi (prima nella sua tesi di laurea e poi nel volume La Rocca di San Secondo, Aemilia, Parma, 1993) ritiene l'ispiratore principe di un ciclo iconografico molto significativo e ancor oggi perfettamente conservato, Giovan Girolamo, la figura del quale è efficacemente illustrata da Vanni Bramanti nella introduzione alla Vita di Federico da Montefeltro (Olskhi, Firenze, 1995).
Paolo III, già Vescovo di Parma dal 1509 al 1534, figura certamente non adamantina, come del resto tanti altri del suo tempo, lui che ottiene la porpora cardinalizia da Alessandro VI (Rodrigo Borgia) per le raccomandazioni della sorella Giulia, si serve di Giovan Girolamo, inviandolo a Firenze all'indomani dell'assassinio di Alessandro de' Medici, missione infruttuosa se si esclude il matrimonio, celebratosi nel 1538, di Ottavio Farnese, imberbe nipote quattordicenne del Papa, con Margherita d'Austria, pruriginosa vedova diciannovenne del Medici. Il Pontefice voleva di certo portare la Città gigliata sotto l'influsso romano, come prospettano gli storici Varchi e Guidiccioni. La missione è per il de’ Rossi una lama a doppio taglio: insospettisce i parenti, non soddisfa i desiderata di Paolo III che lo destituisce da Vescovo di Pavia, lo rinchiude in Castel Sant'Angelo, lo pone al confino in quel di Città di Castello dalla sorella Angela Paola, lo costringe all'esilio in Francia.
Inizia una lotta senza quartiere tra i due Casati, lotta che si dimostra, per San Secondo, deleteria sotto il profilo politico e militare, eccelsa sul piano architettonico e artistico: tutta la fabbrica sansecondina deve essere, infatti, interpretata in un'ottica di antitesi profonda.
Cristina Basteri, ne La Rocca dei Rossi a San Secondo (volume in collaborazione con Patrizia Rota, Giuseppe Cirillo e Giovanni Godi, PPS, Parma, 1995), mette in luce le forti pressioni papali tese a contrastare i lavori di ampliamento e ristrutturazione del castello ben documentando le ispezioni papali al cantiere di San Secondo negli anni '40.
Una attenta rilettura della iconografia della Rocca conferma che la narrazione pittorica viene concepita in chiave antifarnesiana. Appare evidentissimo nella Grande Sala, detta delle Gesta Rossiane, appellativo questo equivalente nella diversità alla famosa Sala dei Fasti Farnesiani di Caprarola. I tredici grandi quadri-arazzo, con le imprese del Casato in tre secoli e mezzo di storia, spiegano a chiare lettere che i Rossi hanno difeso ed esaltato con le loro imprese ed onorificenze territori che a partire dal 1545 sono usurpati: tredici gesta, dalle vittoriose imprese del 1247 e 1248 con la distruzione di Vittoria e la sconfitta di Federico II di Svevia, alla riassoggettazione dei castelli del Parmense operata da Pier Maria I, il Padre della Patria, nel 1470, alla nomina di Pier Maria II a Generale in capo delle truppe italiane al servizio del Re di Francia ed al contestuale conferimento della massima onorificenza militare francese, il collare dell'Ordine di San Michele nel 1542.
Quella nomina deve avere fatto parecchio scalpore e dato tanto fastidio alla Corte Papale. Il più noto cronista dell'epoca, testimone oculare, come appare nell'affresco alle spalle dell'amico Conte di San Secondo, l’arcigno ed irsuto Pietro Aretino, da Venezia l'anno successivo, 1543, ne Le Carte parlanti, lo annota con dovizia di particolari, nel dialogo fra le carte e il Padovano cartàro:
CARTE: Dodici
anni continovi ha con insopportabile disdetta giocato il conte
Piermaria di San Secondo.
PADOVANO: Intendo del nipote di colui che tiene le degne e sacre
ossa sue in Mantova.
CARTE: Egli è desso.
PADOVANO: Cugino del duca nostro, salve.
CARTE: Duo lustri e vintiquattro mesi ha durato di perdere il
grave e religioso capitano, benchè‚ non si può vantar
carta d'averlo mai sentito dire parola mala. E perché, nel
rompersegli d'ogni disegno il suo animo restò sempre intero,
eccolo generale de le fanterie cristianissime, cavaliere de l'ordine
di San Michele e speranza de la gloria italiana.
PADOVANO: Ho inteso confermarlo ne la valentigia del zio.
E’ doveroso segnalare la presenza, all'evento, come raffigurato nel quadro, di un aitante Troilo II, al tempo erede dinastico, in posizione preminente alle spalle del Re Francesco I, e di Camilla Gonzaga, moglie di Pier Maria III, sull'estrema destra, il viso paffuto, somigliantissimo a quello che il Parmigianino ritrae nel quadro conservato al Museo del Prado a Madrid.
Va sottolineato che Pietro Aretino ben ci ragguaglia sul Casato Rossiano in Lettere I:4, I:104, I:123, I:155 (Erspamer, 1995); II:284, II:424 (Flora, 1960); III:20r-22r, III:284r-285r, IV:106, IV:108, IV:147 (Ed. Parigi, 1609). Interessante reperto pure nel Pronostico del '34, mentre il prologo La fama parla de La Orazia, termina osannando il Conte Piermaria.
La Grande Sala delle Gesta resta pur sempre un documento rispettoso e composto, una fiera rassegnazione, introdotta dalla giusta autocritica, di chi ha voluto troppo osare, nelle Sale di Latona, di Adone, dei Giganti. Nella Sala di Circe e Didone la rievocazione dei sogni infranti.
L’antifarnesianesimo è invece vivissimo, oserei dire sguaiato, nella zona residenziale, nella Galleria e nelle Sale con le favole. Gli episodi fabulistici sono correlati ai momenti salienti dei contrasti, a partire dal 1538 e sino alla buona nuova della trasmigratio di Cacco (Papa Paolo III) nel 1549, morte salutata da Giovan Girolamo col violento sonetto pubblicato in Rime (Pisarri, Bologna, 1711):
Spento è l'antico,
horrendo, atro serpente
di Lerna e seco son spenti i Giganti,
Gli Antropofagi e Lestrigoni e quanti
per esca usar già mai l'humana gente.
De' regni bui spento è quel gran Reggente
cui Furie atroci erano sempre astanti
e i Dionigi e Polifemo e i tanti
Ciclopi e Arpie a dipredarci intente.
Spento è l'empio Diomede e quella fera
che nel gran laberinto avea dimora
e cuopria il rio con sue larve mentite,
e Falari e Agatocle e quella altera
Medusa e Polinnestore e in un hora
Cerbero e 'l regno e la città di Dite.
Nella Sala con la storiella del padre e del figlio che si recano al mercato con l’asino, nel quadro terzo si trovano chiarissimi riferimenti romani, il Colosseo e le Colonne Traiane, nel quadro centrale un motto, in latino traslitterato dal greco, momus ubique, la maldicenza sta dovunque: come i personaggi della favola, il Papa dà retta alle chiacchiere della gente, alla maldicenza, "...paucorum invidorum maledicentia in odium pontificis deductus...", giustificazione ufficiale dell'inizio dei conflitti.
L'apice dell’intensità emotiva è toccato nella lunetta della Galleria con la favola della volpe e la maschera: decipimur specie, fummo ingannati dall'apparenza. In primo piano, sulla destra, ecco il naso adunco, la barba ispida, la fronte spaziosa, una gobba all'Andreotti, uno straccio rosso per mantello, una sagoma che si estrapola da un contesto omogeneo: la rappresentazione ridicolizzata di Paolo III.
Nelle immagini: a sinistra l'incontro a Busseto tra Papa Paolo III e l'Imperatore Carlo V (21-25 giugno 1543) in un particolare del dipinto di Biagio Martini conservato nella Sala Consiliare del Comune di Busseto; a destra, immagine ridicolizzata del Pontefice nella lunetta della favola "La volpe e la maschera" nella Galleria di Esopo della Rocca dei Rossi di San Secondo.
Sempre nella Galleria. Molto significativa, in chiave di volta, la cancellazione degli stemmi dei Casati imparentati, fatta eccezione per quello dei Gonzaga e dei Riario. Nelle altre lunette quanti vizi messi in bella evidenza; la malvagità, la violenza, l’ambiguità, la perfidia…
Potrebbero essere rivisti, quando non addirittura stravolti, le attribuzioni, i tempi del cantiere della zona residenziale. Non mi soffermo sulle prime, mancandomi competenze specifiche. Sui tempi, che sinora, dalla critica universale, sono ricondotti alla seconda metà del Cinquecento, mi permetto di avanzare qualche perplessità. Che senso poteva avere la rappresentazione dell'inizio della lotta tra i Casati, oppure l'immagine ridicolizzata del Pontefice, dopo il 1549, a Papa morto, quando Giovan Girolamo veniva riabilitato, reinsediato nel Vescovado di Pavia, addirittura nominato Governatore di Roma? Tante cose dovranno essere ripuntualizzate. Occorreranno ricerche specifiche dentro e fuori quel labirinto di arte e di storia che i Rossi hanno lasciato nel cuore della Bassa Parmense.
rev. 14/07/13