PRESENTAZIONE




 

Sforzinsi, adunque, gl'huomini, in ciascuna età, di havere qualche maniera di virtù, acciò che habbino qualche schermo contra il primo morire, per vivere eternamente, e non passare con silenzio la vita sua. Il che si dice per molti che io ho veduto di grandissime ricchezze, e pompe, e fausto, privi finalmente d'ogni sorte di virtù, e pieni di molta superbia, li quali non piutosto la morte assale, che la gloria loro è in tutto spenta.

Giovan Girolamo de' Rossi,  Storia generale.

 

 

Mi piace qui riproporre, a 515 anni esatti dalla nascita di Giovan Girolamo de' Rossi, la presentazione - riveduta ed ampliata nella parte delle opere e della bibliografia - della trascrizione del manoscritto, in previsione di una ipotetica seconda edizione, magari in formato digitale.

 

 

Sono passati quasi dieci anni da quella fortunata sera del 15 febbraio 2010, quando m'imbattevo in quel saggio di Piero Pallassini, pubblicato nel Bullettino senese di storia patria, intorno alla guerra di Siena, chiave essenziale di un ritrovamento insperato. Ricordando quanto Giuseppe Montani aveva affermato, due secoli prima, definendola la meno bella di quante ne furono scritte nel secolo decimosesto, ma forse la più curiosa, non impiegavo molto tempo a capire che mi trovavo di fronte ad uno straordinario evento: la Storia generale di Giovan Girolamo de' Rossi mi si stava disvelando, con tutta la sua suggestione di memorie ed aneddoti.

Dopo quasi sette anni, il 21 gennaio 2017, riuscivo a vedere fisicamente il malloppo e qualche mese appresso, il 22 aprile 2017, finalmente ne recuperavo copia. Mi ci sono voluti un paio d'anni di lavoro su un manoscritto composto da 515 carte e 4 incisioni, senza contare un'altra decina di carte inserite a mo' d'appendice, per mettere in fila, in forma corretta, poco meno di 420.000 parole, un totale di oltre 2.500.000 caratteri, e rendere giustizia a Giovan Girolamo de' Rossi, uno dei personaggi più illustri del nobile casato di San Secondo di Parma, a 500 anni dalla nascita del cugino Cosimo I de' Medici, verosimile committente di questa opera storica.

 

Cenni biografici.

Numerosi studiosi e cronisti, in forma varia, chi più, chi meno estesamente, hanno illustrato la vita e l'operosità letteraria di Giovan Girolamo de' Rossi. Tuttavia occorre ricondurci all'ultimo quarto del Settecento, ad Ireneo Affò, per poter leggere una vera e propria biografia, peraltro ricca di originali testimonianze, quanto non esente da imperdonabili omissioni ed incongruenze. Nel tempo recente Vanni Bramanti e Letizia Arcangeli hanno rispolverato interessanti e suggestivi documenti per mettere a fuoco una figura di tutto rispetto, nel mondo politico, storico e culturale del XVI secolo. Se volessimo condensare in poche parole l'esistenza di questo personaggio, potremmo farlo solo citando le due importantissime cariche dal medesimo ricoperte e che lo identificano, spesso sostituendone addirittura il nome: vescovo di Pavia, governatore di Roma. Ma procediamo con ordine nella descrizione della vita di questa grande figura, integrando notizie acclarate con nuove informazioni, emerse dalla trascrizione del manoscritto della Storia generale.

Giovan Girolamo de' Rossi nasceva nel castello di San Secondo il 19 maggio 1505, da Troilo e Bianca Riario. Teneva per nonna Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì; per zio Giovanni de' Medici, poi detto delle Bande Nere. Johannes Hieronymus era il terzogenito della prima generazione rossiana del Cinquecento, dopo Pier Maria e Costanza, prima di Angela, Bertrando, Alessandro, Ettore, Camilla e Giulio Cesare.

Avendo trovato discordi, intorno alla data di nascita, gli autori consultati, conviene da subito chiarire ogni dubbio. Giambattista Janelli, Vanni Bramanti, Niccolò Del Re e Letizia Arcangeli ci propongono giustamente il 19 maggio, in contrasto con Pompeo Litta, che riporta il 19 giugno, sulla scorta, si suppone, di quanto affermato, e per ben due volte, nella Vita e nelle Memorie, da Ireneo Affò, il quale, tuttavia, annotando nella Vita che nel calendario premesso ad antico messale scritto in pergamena, che si conserva ancora in San Secondo, e appartiene alla nobilissima casa de' Rossi, così sta scritto sotto il mese di maggio: XIIII Kal... natus est ex illustribus parentibus Troylo Rubeo, & Blanca Riaria Jo. Hieronymus secundogenitus. Anno D.M.CCCCC.V. die utsupra, nocte subsequenti, avvalora in modo inequivocabile la tesi del 19 maggio.

Complicata è stata tutta la sua vita, né poteva essere altrimenti, per le grandi aspirazioni proprie personali e degli altri esponenti della famiglia, una vita destinata agli studi umanistici ed alla chiesa. Appresi i primi erudimenti grammaticali da Cristoforo Vandino, studiava a Bologna, poi approfondiva leggi civili e canoniche con Francesco Burla a Padova, dove godeva della profonda stima di Pietro Bembo e di una fama tale da ingenerare nei posteri il sospetto non infondato che potesse aver ricoperto, in quella università, cariche importanti, addirittura quella di rettore.

Nel 1517, dodicenne, protetto dal potente parente materno, il cardinale di San Giorgio Raffaele Sansoni Riario, veniva nominato da Leone X protonotario apostolico e commendatario dell'abbazia di Chiaravalle della Colomba, nel piacentino. L'11 novembre 1529, otteneva un chiericato di camera da Clemente VII, che il 3 giugno 1530 lo eleggeva vescovo di Pavia. Collaborava intensamente con la corte romana, inviato in pericolose missioni, come ad Ancona nel 1532 (c. 46v), poco tempo prima dell'annessione di quella città allo stato pontificio. Sempre nello stesso anno 1532, la sera dell'8 agosto, nella sua casa di Parma, in procinto di raggiungere a Vienna, con il legato pontificio Ippolito de' Medici, le truppe imperiali di Carlo V, sfuggiva ad un attentato, orditogli da Giovanni Rangoni e Luchino Calzolari.

Restava attivamente impegnato anche con Paolo III, Alessandro Farnese, che lo inviava a Firenze a seguire gli avvenimenti susseguenti la morte del duca Alessandro de' Medici, un tentativo di attrarre quella città in orbita farnesiana: fui mandato da Paolo papa III, in diligenza, a Firenze, nunzio, a rallegrarmi della nuova creazione, e dolermi del caso successo, quantunque in segreto il papa havessi altro animo, che di rallegrarsene, anzi di favorire in tutto i fuorusciti contra Cosimo, di concerto con franzesi (c. 64v). Tali manovre, contro la sua volontà, si ritrovano più estesamente denunciate a c. 94r.

Deterioratisi i rapporti tra il pontefice e tutta la famiglia dei Rossi, Giovan Girolamo nel 1539, convocato a Roma sotto la fede di Alexandro cardinale Farnese, per obedire a Pavolo III, pativa due anni di carcere et iattura di 300 mila scudi, con rovina di casa mia, evitando per divina gratia un grandissimo pericolo della vita (c. 11r). Con sentenza del 4 luglio 1541 veniva condannato: ne seguivano la destituzione da vescovo di Pavia e il confino a Città di Castello, presso la sorella Angela ed il cognato Alessandro Vitelli; dopo che il fratello Pier Maria era passato, nel 1542, al servizio del re Francesco I, andava in volontario esilio in Francia. Durante la reclusione e l'esilio intratteneva cordiali rapporti con Benvenuto Cellini che, nella sua Vita, ne ricorda l’amicizia e gli aiuti reciproci.

Una esistenza di stenti sino all’ascesa al soglio pontificio di Giulio III, Giovanni Maria Ciocchi del Monte che, dopo la revisione del processo e la susseguente assoluzione per non aver commesso i fatti imputatigli, lo nominava governatore di Roma (carica tenuta dal 22 novembre 1551 al 21 gennaio 1555), con la promessa di un cappello cardinalizio: assurgeva a grande notorietà, persino personaggio di rilievo in una novella del Bandello. Restano oscure le motivazioni della destituzione, capro espiatorio di contrasti cortigiani, legati a vicende di ordine pubblico che vedevano coinvolto Carlo Carafa, nipote dell'allora cardinale Gian Pietro, poi papa Paolo IV. In seguito, Carlo Carafa lo voleva fare ammazzare in Firenze per tre sicarij, con archibusetti a ruota, la festa di Natale, nella chiesa di Castello, ma li homicidiali non ardirno assalirmi, anzi, per la strettezza del vivere e delle guardie di Fiorenza, dubitando essere scoperti, secretamente se ne fuggirono" (c. 495r).

Letterato, poeta e storiografo insigne, viveva gli ultimi anni di vita sotto la protezione del cugino Cosimo I de' Medici, dapprima in Firenze, in seguito nella villa del Barone in Toscana, disoccupato da ogni negozio, fuor che delli studij; et con un poco di tregua con la gotta ... massimamente essendo discacciato dall'immenso diluvio che ha fatto l'Arno di Firenze, cresciuto in casa mia X braccia, con rovinarla quasi tutta, et con perdita assai et distruzzione universale di tutta la città, rovinando el ponte alla Carraia, di Santa Trinita affatto, e gran parte del Rubaconte (c. 1r). E sempre la gotta lo costringeva a rinunziare, nel 1560, al vescovado pavese ed alla partecipazione al concilio di Trento, dove delegava il nipote Ippolito (c. 462v).

Giovan Girolamo de' Rossi cessava di vivere il 5 aprile 1564 nella villa del Barone a Montemurlo, poco distante da Prato. Le sue spoglie venivano affidate alla quiete di un'antica chiesa allora esistente in detta città, sotto il titolo di Santa Trinita, in luogo della quale esistono oggi vari edifizi (appendice 4, P. c. 2v). I suoi beni mobili passavano in gran parte alla corte medicea, mentre la villa del Barone era stata donata, già a far tempo dal 4 settembre 1562, al nipote Sigismondo e restava nel patrimonio della famiglia dei Rossi per più di un secolo, sino al 23 novembre 1693, quando veniva acquistata per ventimila scudi, praticamente a scatola chiusa, dal marchese Francesco Tempi.

Di Giovan Girolamo de’ Rossi non ci risultano riferimenti iconografici certi. Sulle pareti dell'anticamera delle sale di rappresentanza del palazzo vescovile di Pavia appaiono a fresco le immagini dei presuli che hanno retto, nei secoli, la diocesi. Troppo uguali tra di loro, per essere verosimili, sono i ritratti suo e del nipote e successore, il cardinale Ippolito. Una ipotesi suggestiva, che vado esponendo da tempo, andrebbe necessariamente verificata con moderni studi fisionomici: compare in Rocca a San Secondo, nella Sala di Adone, in affresco, un anziano personaggio, laureato (poeta?), con vestimento militare (governatore di Roma?), già descritto da Dante Minghelli-Vaini come Gian Giacomo Trivulzio, personaggio estraneo alla cerchia degli stretti parenti, quali erano il duca di Mantova Federico II Gonzaga, il cardinale Raffaele Sansoni Riario e Giovanni delle Bande Nere. Mi auguro non debba restare solo una provocazione scorgere in quell'affresco una qualche somiglianza con il giovanile ritratto con berretta da prete in capo con officio alla sinistra, et destra sopra una tavola, con medaglie, et figure antiche, et dietro alcune figurine antiche di chiaro, e scuro, del Parmigianino, n. 144 (descrizione da Mario Di Giampaolo di un dipinto già di proprietà di casa Farnese, oggi alla National Gallery di Londra e noto, guarda caso, come ritratto di collezionista).

Allo stesso modo appare suggestivo, e resterebbe da chiarirne l'identificazione, il possesso di un misterioso dipinto, di cui lo stesso Giovan Girolamo parla con enfasi: Di questa Rossa io ne ho un ritratto al naturale, per relazione di chi l'ha veduta, che è cosa bellissima, et è di casa sanseverina, della stirpe de' principi e signori di Rossano, imperò così chiamata, quale da fanciulla fu fatta pregiona da corsari et ivi trasportata e donata al turco, quale giovanetta la pose nel suo serraglio, ove finalmente la pigliò per moglie, per la infinita bellezza sua (c. 200r). Potrebbe ben trattarsi della Schiava turca, una delle più belle opere di Francesco Mazzola, il Parmigianino, che ancora Di Giampaolo così descrive: Già appartenuto alla collezione del cardinale Leopoldo de' Medici (e come tale ricordato nell'inventario del 1675: Archivio di Stato di Firenze, Guardaroba, 826, c. 57r), il dipinto è registrato nella Galleria negli inventari dal 1704 al 1890, per passare nel 1928, attraverso una permuta, alla Galleria Nazionale di Parma.

 

 

Opere.

L'attività poetica e storico-letteraria di Giovan Girolamo de' Rossi nel tempo recente è stata messa in piena luce da Vanni Bramanti ed a lui rimando per ogni approfondimento. Di questo illustre sansecondino viene attestata un'operosità non secondaria, come del resto ha anche segnalato Letizia Arcangeli.

Oltre alla Storia generale, oggetto del presente lavoro, quasi tutte le opere rossiane sono pervenute ai posteri in forma di manoscritto, se si escludono le Rime di M. Giovan Girolamo de' Rossi, stampate nel 1711 in Bologna, tratte dal manoscritto conservato presso la Biblioteca Palatina di Parma; un altro manoscritto inedito di Poesie di Giovan Girolamo de' Rossi di San Secondo, vescovo di Pavia trovasi nella Biblioteca Marciana di Venezia.

L'operosità storico-letteraria resta attestata da:

Vite di uomini illustri antichi e moderni (Giovanni delle Bande Nere, Attila, Belisario, Narsete, Alboino, Castruccio Castracani, Giorgio Scanderbeg, Tamerlano, Micheletto Attendolo, Jacopo Piccinino, Boemondo, Giovanni Corvino, Mattia Corvino, Ezzelino e d'altri della Scala con altre memorie, Roberto il Guiscardo, Federico di Montefeltro, Muzio Attendolo Sforza), ricomprendendo il manoscritto, conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, anche Breve narrazione delle incursioni de' Turchi nel Frioli, Ricordo d'alcune cose antiche de' Rossi e Alberi di famiglie illustrissime. Per quanto ne abbia contezza, sono state mandate alla stampa, estrapolate singolarmente, le vite di Giovanni delle Bande Nere (varie edizioni, tra le quali P. Litta, 1833 [secondo la lezione della Biblioteca Riccardiana di Firenze]; V. Bramanti, 1996), di Giorgio Scanderbeg (L. Marlekaj, 1973, detta di anonimo autore), di Federico di Montefeltro (V. Bramanti, 1995), di Jacopo Piccinino (S. Ferente, 2005) e di Micheletto Attendolo (J. M. Argaud, 2006).

Discorso del Reverendissimo Monsignor di Pavia. Tratto da diversi storici a proposito della guerra contra 'l Turco (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana).

Discorsi e ragionamenti dell'illustre e molto reverendo Monsignor lo Vescovo di Pavia fatti in guisa di dialoghi dove intervengono il signor don Ferrante Gonzaga, il Marchese di Marignano, il signor Pirro Colonna, il signor Lodovico Vistarino, l'autore (Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana).

Frammenti di storia (nel più ampio contesto dei Frammenti di storie fiorentine di Benedetto Varchi (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana).

Giovan Girolamo de' Rossi risulta essere, per sua ammissione, autore anche delle seguenti opere disperse: Libro degli usi diversi, Centiloquio, Discorso sulle medaglie, Delle differenze delle età, Notizie e cose memorande de' miei tempi, Vita di re Alfonso d’Aragona, Sui Commentarii di Giulio Cesare. E pure alcuni gli attribuiscono la famigerata Lettera di fra Bernardino a P. P. Paolo III e Dubia centum theologica feliciter enodata.

 

 

Considerazioni ed avvertenze.

Il confronto fra la descrizione, tracciata nel 1831 da Giuseppe Montani, sulla Antologia, giornale di scienze, lettere e arti, con quella del 2007 di Piero Pallassini, sul Bullettino senese di storia patria, è stato, come detto, fattore fondamentale per la localizzazione del manoscritto: pare, pertanto, opportuno, per quanto se ne sia trattato anche in altre sedi, riproporre le due versioni.

Giuseppe Montani ipotizza una suddivisione in sette libri o capi, sulla base delle segnature:

Il codice, che trovasi in questo palazzetto, per lo meno fin da' giorni del senator Giovanni Uguccioni, avo dell'attual possessore, è in gran foglio, di 471 carte numerate e 41 non numerate, con una piccola appendice di cui poi vi dirò. È scritto da mani diverse, talvolta d'assai bel carattere, sempre di carattere leggibilissimo, con giunterelle marginali e correzioni tra verso e verso, che solo al primo guardarle si fan credere di mano dell'autore. Questa mano mi pareva e non mi pareva di riconoscerla. Avea veduto qualcosa di simile in un codicetto riccardiano, ma d'un simile troppo più accurato che quasi potrebbe sembrar diverso. Però ebbi d'uopo di leggere alcun poco, per sapere s'io avessi aIla mia speranza altro fondamento che il mio desiderio … Essa è distribuita, se distribuzione può dirsi una material divisione, in sette libri o capi, ne' due primi de' quali si toccano sommariamente le cose occorse a' tempi d'Alessandro sesto, di Pio terzo, di Giulio secondo, di Leon decimo, d'Adriano sesto, di Clemente settimo e un po' più innanzi, cioè dal 1494, circa, al 1547; ne' cinque seguenti si narrano largamente le avvenute o almen parte delle avvenute a' tempi di Paolo terzo, di Giulio terzo, di Marcello secondo, di Paolo quarto, di Pio quarto, dal 1547, circa, al 1562. I primi due, per vero dire, non sono così un sommario storico, che pur non sieno talvolta un supplemento alle storie che da altri già si erano scritte. I seguenti, in cui abbiamo la storia, che l'autore, per ubbidir, com'ei dice, a chi potea comandargli, si propose particolarmente di scrivere, lo sono anche a varie che si scrissero dappoi.

Piero Pallassini, senza peraltro averla riconosciuta per la Storia generale, ci descrive una suddivisione in fascicoli, per quanto disomogenei, come del resto oggi l'opera si presenta:

Il contenuto del manoscritto è una cronaca molto articolata e precisa degli avvenimenti politici e in particolar modo militari accaduti in Italia e non solo, nel periodo che va dalla fine del XV secolo fino agli inizi della sesta decade del XVI, tanto da abbracciare il tempo di undici pontificati e cioè quelli di Alessandro VI, Pio III, Giulio II, Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, Giulio III, Marcello I, Paolo IV e Pio IV. Il monumentale lavoro è privo del titolo e del nome dell’autore anche se questo, come vedremo più avanti, si è potuto infine individuare con tutta certezza. Il formato è di cm. 41 x 29 e si compone di carte rilegate in quindici fascicoli distinti ma con unica, progressiva numerazione. Il primo fascicolo, dopo sei carte bianche non numerate, va da c. 1 r. a c. 56 v. Il secondo, da c. 57 r. a c. 74 v. Il terzo, da c. 75 r. a c. 90 v. Il quarto, da c. 91 r. a c. 102 v. Il quinto, da c. 103 r. a c. 150 v. Il sesto, da c. 151 r. a c. 158 r.; la c. 158 v. è bianca. Il settimo, da c. 159 r. a c. 199 v. L’ottavo, da c. 200 r. a c. 205 r.; la c. 205 v. è bianca. Seguono tre carte bianche non numerate. Il nono, da c. 206 r. a c. 254 v. Il decimo, da c. 255 r. a c. 304 v. L’undicesimo, da c. 305 r. a c. 354 v. Il dodicesimo, da c. 355 r. a c. 380 v. Il tredicesimo, da c. 381 r. a c. 425 v. Il quattordicesimo, da c. 426 r. a c. 471 v. e termina con due carte bianche non numerate. Il quindicesimo è composto di 42 carte scritte su ambedue le facciate, ad eccezione dell’ultima che è scritta in una sola facciata e sono prive di numerazione. Seguono infine altre quattro carte bianche. Il testo, come vedremo, è stato scritto in parte direttamente dall’autore quando le sue precarie condizioni di salute glielo permettevano, ed in parte da altri soggetti sotto dettatura. Tra le c. 230 v. e 231 r. è presente un’incisione raffigurante una carta geografica di una parte del Lazio con Roma ed Ostia, titolata Mezo di Mare Tireno. Tra le c. 328 v. e 329 r. trovasi un’altra incisione con la raffigurazione della città francese di Chales [Calais] al tempo della guerra del 1558. Una terza è inserita tra le c. 337 v. e 338 r. ed è titolata: Il vero desegno de Thionville 1558. L’ultima incisione si trova tra le c. 445 v. e 446 r. e raffigura una fortezza a quattro bastioni che, come si deduce dal testo, è quella che fu eretta dall’esercito cristiano nell’isola di Terbè durante la spedizione contro i turchi del 1560. All’inizio del manoscritto è presente un piccolo fascicolo staccato, composto di tre pagine numerate e con il titolo Proemio, di calligrafia probabilmente sei-settecentesca. Dopo l’ultima carta scritta dell’ultimo fascicolo, ed insieme con questo rilegato, vi è un altro fascicolo più piccolo composto di alcune carte riguardanti la questione de “L’origine et cagione della discordia in Francia per conto della religione et del successo della guerra”. Tutto il manoscritto è raccolto da una copertina in cartone con costola pergamenacea sulla quale sono ancora visibili le tracce frammentarie ed illeggibili di un’antica segnatura archivistica.

Nel testo ritrascritto si sono mantenute vive entrambe le suddivisioni in libri o capi (secondo Montani), in fascicoli (secondo Pallassini) , indicando fra parentesi quadra, all'inizio della rispettiva carta, la segnatura, il numero del fascicolo ed il numero della carta. Il numero della carta e la segnatura sono chiaramente leggibili nel testo, mentre il numero progressivo del fascicolo è stato desunto visivamente dallo stato dell'opera. Dentro doppia parentesi quadra, infine, si è data numerazione progressiva da c. 472 a c. 515, di fatto l'intero fascicolo 15, alle 44 carte, che Montani e Pallassini riferiscono esserne, come di fatto sono, prive, carte peraltro conteggiate in numero di 41 dal primo, di 42 dal secondo.

Non è parso opportuno tenere conto delle carte bianche, indicate dal Pallassini, ininfluenti ai fini redazionali.

Tenuto a sottolineare che dalla c. 201 e sino alla fine, anche delle carte non numerate ([c. 515v]), non si ritrovano ulteriori segnature, ne risulta il seguente quadro d'insieme:

 

Segnatura Fascicolo    da carta    a carta

A. a.  

F. 1  

    1r  

  58v

B. b.  

F. 2  

  59r  

  74v

C. c.  

F. 3  

  75r  

  90v

D. d.  

F. 4  

  91r  

102v

E. e.  

F. 5  

103r  

150v

F. f.  

F. 6  

151r  

158v

  

F. 7

159r  

199v

G. g.  

F. 8

200r  

205v

  

F. 9

206r  

254v

  

F. 10  

255r  

304v

  

F. 11  

305r  

354v

  

F. 12  

355r  

380v

  

F. 13  

381r  

425v

  

F. 14  

426r  

471v

  

F. 15  

[472r]  

[515v]

Ad ogni buon conto sono bianche le carte 58v, 158v, 194v, 205v, [513v], [515v].

Costituiscono appendice documentaria, facendo precedere da idonea lettera distintiva la numerazione progressiva delle rispettive carte:

– L.: la lettera del vescovo Girolamo Garimberti, datata di Roma, alli 3 di maggio del 63, che trovasi rilegata all'interno del fascicoletto della relazione;

– R.: la relazione del medesimo Garimberti, titolata L'origine et cagione della discordia in Francia per conto della religione, et del successo della guerra;

– A.: alcuni appunti probabilmente autografi (di cui bianche 1v, 2v);

– P.: il cosiddetto Proemio ottocentesco, molto probabilmente redatto dall'allora possessore, verosimilmente il cav. Giovanni Fabio Uguccioni.

Dopo aver letto e riletto tutto il contenuto dell'opera, resta viva la prima impressione, oserei dire suggestione di persona appassionata, che Giovan Girolamo scriva di getto o detti a braccio la sua Storia generale, mescolando aneddoti e qualche vicenda personale ad avvenimenti che hanno profondamente segnato il suo tempo. Egli scriveva fuor di ogni inibizione, con giudizi trancianti su situazioni contingenti e persone, anche altolocate, non escluso lo stesso cugino e protettore Cosimo I de' Medici. Con buona ragione, stante la franchezza espositiva, scevra da riverenze, timori o ritorsioni, la si potrebbe ben definire una storia fuori dai libri di storia: sforzarommi di narrare il vero, seguane poi quello che vuole (c. 1v).

E certamente, a mio giudizio, il manoscritto rappresenta la prima bozza di un lavoro che l'autore non ha potuto completare per la malattia che lo opprimeva nel suo ultimo anno di vita e che lo avrebbe condotto a morire il 5 aprile del 1564. Vi si leggono vicende accadute sino ai primi anni sessanta, concludendosi la Storia generale con la morte di Ercole Gonzaga, cardinale di Mantova (2 marzo 1563, [c. 513r]) e la proposta dei capitoli della pace, convenuti fra le parti, al termine della prima guerra di religione, direttamente dal campo a Senami alli 14 di marzo 1563 ([c. 515r]), qualche giorno innanzi il più famoso trattato di Amboise, nel pontificato di Pio IV, incompiutezza redazionale pure testimoniata dalla mancata restituzione della relazione, inviatagli da Girolamo Garimberti, come veniva espressamente richiesto nella lettera accompagnatoria del 3 maggio 1563 (L. c. 2r), non 14 marzo, come annotava il Montani nella lettera sesta.

In molte carte si ritrovano spesso correzioni ed integrazioni autografe, necessarie, non dico ad una stesura definitiva, ma almeno ad un primo abbozzo di revisione.

Tutta l'opera è scritta in bella calligrafia, per quanto si possano evidenziare interventi di mani diverse, come hanno evidenziato Giuseppe Montani e Piero Pallassini, che mi hanno preceduto nella visione ed esame del manoscritto. Stante il voluminoso apparato non sono stati evidenziati pesanti “refusi”, all'infuori di un paio di quore (c. 264r, c. 467r) e di una squola (c. 506r), mentre Marcello Cervini vien detto Marcello primo e non secondo (c. 2r, c. 213v).

Il fluido periodare mi ha costretto ad intervenire sulla punteggiatura, molto lacunosa, al fine di rendere la lettura il più possibile agevole e comprensibile.

Sono stati resi con la iniziale minuscola tutti i nomi di popoli e casati, mentre sono state lasciate inalterate le espressioni numeriche, ora in forma romana, ora araba, essendo usate le due forme in maniera indiscriminata.

I nomi di luoghi e di persone, spesso ed in modo non univoco, risentono degli influssi di una incerta traduzione, specialmente dal francese e dal tedesco, con evidenti storpiature, secondo la loro divulgazione popolare.

Si è lasciata la lettera h in tutte le forme coniugate del verbo havere ed in quei sostantivi ed aggettivi che la prevedevano nella forma latina, come pure la doppia zeta, laddove la forma latina avrebbe voluto la doppia t (-zzione), e la vocale i nella declinazione plurale femminile dei sostantivi con desinenza -cia e -gia, preceduta da consonante, modi di scrivere oggi assolutamente vietati.

Essendo stato riscontrato un uso disomogeneo della i e della j, nella trascrizione di solito è stata lasciata la j intervocalica e nelle declinazioni maschili plurali con desinenza ij, mentre si è adottata sempre la i in tutti gli altri casi.

La vocale u e la consonante v sono state rese secondo la vulgata moderna.

Si sono messi entro parentesi quadra [xxx] i vocaboli di difficile interpretazione per abrasioni o macchie.

Laddove nel manoscritto sono spazi bianchi, per evidente omissione di nomi di persone, nella trascrizione sono stati posti tre asterischi (***); quando esistente, è stata lasciata la consonante N.

Nel manoscritto sono inserite, fuori testo, quattro incisioni: la prima e la terza, oltre al titolo (a), riportano, sul retro, una brevissima didascalia (b), la seconda solo il titolo (a), la quarta, peraltro molto rovinata, nessuna indicazione ed il titolo (a), desunto dal testo, viene messo tra parentesi quadra. In sintesi ne risulta il seguente apparato:

– F. 9, tra c. 230v e 231r:

(a) Mezo di mare Tireno.

(b) La fortificazione di Hostia delli imperiali contra del papa.

– F. 11 tra la c. 328v e 329r:

(a) Chales.

– F. 11 tra carta 337v e 338r:

(a) Il vero disegno di Thionville.

(b) Il disegno di Theonville.

– F. 14, tra c. 445v e c. 446r:

(a) [Disegno del forte delle Zerbe].

Nella trascrizione del manoscritto, copia delle incisioni è stata posta tra le carte di rispettiva collocazione, a mo' di promemoria, occupando la porzione minima necessaria di spazio.

Occorre, ad ogni buon conto, sottolineare che non si trova traccia, di altre due incisioni, o disegni, riferiti, a c. 139v, all'assedio di Metz, con la figura della pianta della città e parte della campagna, e corsi delle riviere, e luoghi dove stettero accampati gl'imperiali, ed a c. 204r, alla adulazione che essi sanesi fecero a Cosimo, quando entrò la prima volta in Siena, con la sua entrata in stampa, che sarà in fine di questo libro. Peraltro non si trova riscontro, della vita [di Paolo III] composta da fra Bernardino Occhino [correzione su incerto autore], fattagli vedere stampata, et publicata in quel tempo, di cui si dice a c. 122r, con tanto di segnaposto.

Per quanto attiene alle fonti, è indubbio che Giovan Girolamo de' Rossi abbia potuto disporre delle opere di chi lo ha preceduto, non sottovalutando il fatto che egli abbia potuto attingere a documenti di prima mano, stante la sua lunga frequentazione della corte pontificia e delle cancellerie milanese (con il governatorato di Ferrante Gonzaga) e fiorentina (soprattutto dopo la presa del potere di Cosimo I de' Medici), e che si sia certamente confrontato con autori coevi, quali Benedetto Varchi ed Angelo Dovizi. Questa ampia raccolta di informazioni, variamente abbozzata, incide, per quanto non univocamente, sui riferimenti temporali, in particolare per gli avvenimenti di Toscana, che riportano il conteggio degli anni secondo lo stile fiorentino e senese, non mancando, tuttavia, evidenti ricorsi al calendario pisano: emblematico è il caso del sacco di Roma del 6 maggio 1527, collocato per ben quattro volte nel 1528 (per il memorando sacco di Roma, fatto da lui nel 28, c. 216r; sacco del 1528 sotto Clemente, c. 216v; si dubitava d'un altro sacco, come avvenne nel 1528, c. 229v; nella storia dell'anno 1528, per il sacco di Roma, c. 431r).

Pallassini e Montani hanno riportato brevi incisi, volti a mettere in risalto quelle cose zocose, che sovente intercalano la narrazione storica: non è parso opportuno, salvo in minima parte e per i soli riferimenti biografici, ripetere quanto completamente trascritto.

Non è stato possibile, vuoi per la vastità dell'opera, quanto per il tempo e le competenze specifiche, apporre annotazioni esplicative e sviluppare apparati tecnici adeguati: si lascia questo gravoso compito a quei benemeriti studiosi che, nel tempo, vorranno intervenire, chiedendo venia per eventuali imperdonabili incongruenze.

 

Ringraziamenti.

La pubblicazione di questa fondamentale opera rossiana è resa possibile grazie al sostegno di Fabio Nisi, presidente dell'Associazione Palazzo Vitelli a Sant'Egidio e della Fondazione Cassa di Risparmio di Città di Castello, alla lungimiranza di Giancarlo Mezzetti, responsabile scientifico e curatore della Mostra nazionale del libro antico e della stampa antica di Città di Castello, ed all'entusiasmo di Guido Perra, appassionato collezionista e cultore di storia fiorentina e senese, attual possessore del manoscritto. Con loro e le rispettive famiglie ho instaurato un rapporto di sincera amicizia, di cui posso pregiarmi ed andare fiero.

Mi corre l'obbligo di esprimere i sensi di profonda gratitudine agli amici della Corte dei Rossi, associazione che da oltre vent'anni promuove la grande storia di San Secondo.

Ultimi, ma non ultimi, con la dedica di questo mia fatica, ringrazio Felicina, Alberto, Alessandro e Lorenzo, le due Giulie ed i piccoli Arianna, Azzurra e Leonardo, l'amore dei quali mi sostiene quotidianamente.

Dalla Rocca di San Secondo, 19 maggio 2020.

Pier Luigi Poldi Allaj


Referenze bibliografiche essenziali:

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Arcangeli, L., Rossi Giovanni Girolamo, in Dizionario biografico degli italiani, 88, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2017.

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Minghelli-Vaini, D., Cenni sul Castello di San Secondo, Roma, 1895 (ristampa a cura del Comune di San Secondo Parmense, 1992).

Montani, G., Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi - Lettera prima, in Antologia: giornale di scienze, lettere e arti, Vol. 33, G. P. Viesseux, Firenze, 1829.

Montani, G., Lettera sesta intorno a' Codici del marchese Luigi Tempi, in Antologia: giornale di scienze, lettere e arti, Vol. 43, G. P. Viesseux, Firenze, 1831.

Pallassini, P., Una fonte inedita per la "Guerra di Siena", in Bullettino Sanese di Storia Patria, CXIV (2007), Accademia Senese degli Intronati, Siena, 2008.

Paoli, M. P., Giovan Girolamo de' Rossi, vescovo di Pavia, e il suo processo: un caso giudiziario del secolo XVI, in Varchi e altro Rinascimento - Studi offerti a Vanni Bramanti (a cura di S. Lo Re e F. Tomasi), Vecchiarelli Editore, Roma, 2013.

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Visonà, M., Ville e dimore di famiglie fiorentine a Montemurlo (con interventi di A. Baroni e M. Becherini), Edam, Firenze, 1991.

 

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