SUGGESTIONI ROSSIANE

di

Pier Luigi Poldi Allaj

 

Dopo aver scorto nella volta della Galleria di Esopo lo stemma dei Riario - azzurro e giallo, in campo azzurro la rosa - alla ricerca delle verità perdute nella notte dei tempi c'è chi immagina di vedere i "grandi" del passato in tutte le forme e sembianze possibili. E non ne ha tutti i torti. In San Secondo il "palazzo dei "Rossi", o meglio i "Rosso" - al singolare - "Rubeus" come sta inciso su ben cinque camini, nel Cinquecento era albergo di letterati, poeti, artisti egregi.

Figura emblematica resta sempre Giovan Girolamo, nato in San Secondo il 19 maggio 1505, morto il 5 aprile 1564 nella villa del Barone, tra Prato e Pistoia, di sua proprietà già dal 25 luglio 1557, secondogenito di Troilo I e Bianca Riario. Autore di interessanti scritti, molti dei quali ora perduti, e di "suggestive" composizioni poetiche, il fratello del Conte Pier Maria II, dal 1530 vescovo di Pavia e, tra il 1551 e il 1555, governatore di Roma è l'ispiratore principe del ciclo iconografico della zona residenziale (S. Rossi, La Rocca di San Secondo, Parma, 1993).

Vanni Bramanti, dell'Università di Padova, ("Vita di Federico da Montefeltro", Introduzione, Olschki, Firenze, 1995) illustra ampiamente vita e opere del monsignore, soddisfatto per aver conseguito "il risultato di portare alla luce i prodotti di un'operosità non secondaria" e per "essere riuscito a focalizzare la vicenda di un personaggio (e di uno scrittore) del quale [...] ben poco si sapeva, lasciando per altro un margine per ulteriori interventi". Scorrendo quelle pagine, si nota che il de' Rossi morendo "aveva lasciato un'importante raccolta di anticaglie che, a Roma, un incaricato dei Medici si preoccupava di recuperare; oltre ai pezzi rimasti al Barone, altri, soprattutto sculture, erano finiti presso un vecchio conoscente [...], il suo concittadino Gerolamo Garimberto, altro materiale, infine, era stato interrato nella sua vigna romana. I figli di Cosimo de' Medici, Francesco e Ferdinando, entrambi destinati a salire sul trono di Toscana, non si lasciarono sfuggire la ghiotta opportunità". Il Bramanti riporta un passo dal "Saggio istorico della Real Galleria di Firenze" (G. Bencivenni Pelli, 1779): "Fra il cardinale Ferdinando e il principe Francesco [nel ...] 1569 fu fatta in Roma la divisione delle statue già possedute dal vescovo di Pavia, Giovangirolamo de' Rossi di Parma, prelato non ignoto per la sua dottrina, per le sue ricchezze e per le vicende a cui fu soggetto [...] e di dette statue ne pervennero XXXI al secondo e XXVIII al primo".

Per quanto concerne Girolamo Garimberto, il "vecchio conoscente del vescovo di Pavia" lo ritroviamo affettuosamente citato da Pietro Aretino nella lettera I, 123 "Al Conte di San Secondo" (Erspamer, 1995): "Io ho ricevuto per mano di messer Girolamo Garimberto, mio più che fratello, le calze e le maniche, vaghe come io le voleva".

Certamente "suggestive" le relazioni con San Secondo di Francesco Mazzola, il Parmigianino, che interrotti i lavori nella Chiesa della Steccata "una notte si partì da Parma, e con alcuni suoi amici si fuggì a San Secondo; e quivi incognito dimorò molti mesi, di continuo alla alchimia attendendo. E perciò aveva preso aria di mezzo stolto, e già la barba et i capegli cresciutigli, aveva più viso d'uomo salvatico, che di persona gentile com'egli era. Avvenne che, appressandosi egli a Parma, non istimando quegli che gli facevano operare, fu preso e messo in prigione, e sforzato promettere di dar fine all'opera. Ma fu tanto lo sdegno che di tal cattura prese, che accorandosi di dolore dopo alcuni mesi si morì d'anni XXXXI. [...] Fu Francesco Mazzola sepolto in Parma". Così nelle "Vite" (edizione "Torrentina", Firenze 1550) scrive Giorgio Vasari che misteriosamente nella "Giuntina" (Firenze, 1568) ritratta e cambia versione facendo fuggire l'artista a Casalmaggiore dove "fu assalito [...] da una febre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita. [...] Volle esser sepolto nella chiesa de' frati de' Servi, chiamata la Fontana, lontano un miglio da Casalmaggiore". Strano che tra la fuga a Casalmaggiore e la morte il Parmigianino sia riuscito a fare "una culla di putti [...] per la signora Angiola de' Rossi da Parma, moglie del signor Alessandro Vitelli". Strano anche che a San Secondo esista da tempo immemorabile una via denominata "Mazzola", addirittura due, "Mazzola Levante" e "Mazzola Ponente". Per la cronaca Angiola de' Rossi era una delle sorelle del Conte Pier Maria II e del vescovo Giovan Girolamo.

 

La "commissione" dei Rossi al Parmigianino deve essere stata cospicua, non limitata al pezzo dianzi citato e ai madrileni ritratti del Conte di San Secondo e della Contessa con tre figli. Pinacoteche e cataloghi ci svelano antiche, nuove "suggestioni". Chiaro che per la quadratura del cerchio mancano sempre quei maledetti documenti che, loro soli, ci darebbero la conferma inequivocabile.

Interessante sarebbe sapere quanto di "Parmigianino" possa esserci stato nelle collezioni di Giovan Girolamo de' Rossi. Lecito ipotizzare il suo ritratto con tanto di "griffe", di certo quanto meno repliche di ritratti di familiari, naturalmente soggetti "sacri". Due quadri, su tutti, "suggestionano" un attento osservatore.

 

 

 

 

Sappiamo bene, e i documenti rispolverati dal Bramanti lo confermano, sappiamo bene che il grande hobby di Giovan Girolamo era il collezionismo. Perché non vederlo quindi sotto le giovanili spoglie di quell'anonimo "Collezionista" già descritto "Prete di mano del Parmigianino" (Bertini, La collezione dei duchi di Parma, 1987; Di Giampaolo, Parmigianino - Catalogo completo, 1991), i lineamenti, il taglio dei capelli somigliantissimi a quell'"apocrifo Trivulzio", dal sottoscritto identificato (P. L. Poldi Allaj, Lotte e intrighi nelle nebbie padane, San Secondo, 1996) come Giovan Girolamo de' Rossi, insignito dell'alloro poetico, col vestimento militare di governatore dell'urbe, nel quadrante ovest, sopra il camino, nella Sala di Adone della Rocca di San Secondo? Il quadro del "Collezionista", è ora conservato a Londra, alla National Gallery, acquistato nel 1977 sul mercato antiquario inglese. Il passaggio ai Farnese potrebbe essere stato giustificato, da parte dei Rossi, come l'omaggio estremo per la riottenuta pacificazione e amicizia con i nuovi Signori di Parma, in quella superiore visione di passaggio di consegne e di autocritica palesi nella Sala delle Gesta Rossiane ed in quelle adiacenti dei Giganti, di Adone appunto e di Latona, la resa incondizionata con il dono del ritratto dell'antico e fiero rivale.

 

 

 

Che dire poi della "Schiava turca"? Di Giampaolo (Parmigianino - Catalogo completo, Firenze, 1991) afferma che il quadro "già appartenente alla collezione del cardinale Leopoldo de' Medici" finisce col "passare nel 1928, attraverso una permuta, alla Galleria Nazionale di Parma". Verosimile ipotizzarne una proprietà rossiana cinquecentesca, prima che medicea, attraverso l'eredità di Giovan Girolamo. Se Giampaolo sembra accettare argomentazioni desuete secondo le quali "la denominazione di 'schiava turca' deriva dal tipo di acconciatura calzata sulla testa della giovane [...] somigliante ad un turbante di foggia moresca", Anna Coliva (Galleria Nazionale di Parma, a cura di Lucia Fornari Schianchi, Parma, 1998) precisa che "tale copricapo, il balzo a rete di fili d'oro, era acconciatura molto comune nell'Italia Settentrionale intorno al 1530". Avvenente e machiavellica figura femminile, i capelli castani, le gote paffute, la carnagione rosea, eccentrico e "moderno" personaggio, Camilla de' Rossi, prima moglie di Girolamo Pallavicino, pure lei sorella del Conte di San Secondo e del vescovo Giovan Girolamo, morta in giovane età il 29 settembre 1543.

Tornando a Giorgio Vasari, notiamo altre "suggestive" relazioni col Casato rossiano. Lui affresca in Palazzo Vecchio e descrive nei "Ragionamenti" la "battaglia di San Secondo" del 1522, quando Giovanni delle Bande Nere venne a difendere la sorella Bianca e i nipoti insidiati da Bernardo, vescovo di Treviso (soggetto di Lorenzo Lotto) e Filippo Maria di Corniglio. Il Vasari parla di "riscatto di San Secondo, fatto dal Signor Giovanni, nella qual impresa si fece una grandissima zuffa [...] mezzo dentro e mezzo fuori della terra, che apportò grandissimo danno alli nimici". Nelle "Vite" (Giunti, Firenze, 1568) lo stesso artista afferma di aver fatto "a monsignor de' Rossi de' conti di San Secondo e vescovo di Pavia due quadri grandi a olio: in uno è San Ieronimo e nell'altro una Pietà, i quali amendue furon mandati in Francia".

Siamo infatti alla fine del 1546, nel bel mezzo di quel periodo cruciale che Giovan Girolamo passa peregrinando di corte in corte, in esilio, dopo l'ingiuriosa condanna inflittagli da Paolo III, periodo che lo vede legato a Benvenuto Cellini, dapprima insieme in carcere in Castel Sant'Angelo: "In quel tempo il vescovo di Pavia, fratel del conte di San Sicondo, domandato monsignor de' Rossi di Parma, questo vescovo era prigione in Castello per certe brighe già fatte a Pavia; e per essere molto mio amico [...] lo chiamai ad alta voce, dicendomi che per uccidermi quei ladroni m'avean dato un diamante pesto [...] e quel poco che vivessi, lo pregavo che mi dessi de' sua pani uno il dì, perché io non volevo mai più mangiare cosa nissuna che venissi da loro. Così mi promise mandarmi della sua vivanda". In quella Francia dove il Vasari gli manda i quadri il Cellini ritroverà Giovan Girolamo: "Ancora capitò il vescovo di Pavia, cioè monsignor de' Rossi, fratello del conte di San Sicondo. Questo Signore io levai d'in su l'osteria e lo missi innel mio castello, dando ancora a lui una istanza libera, dove benissimo istette accomodato con sua servitori e cavalcatura per molti mesi". Giovan Girolamo in seguito presterà al Cellini un mulo per il trasporto di tre vasi donatigli dal Re, che gli verranno contestati come furto, creandogli pure qualche grattacapo.

Alla fin fine anche i grattacapi sono solo "suggestioni"...

© Pier Luigi Poldi Allaj 1999
Rev. 27-06-2016


 

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