Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera ottava

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Povero Byron! mi par di vederlo. Son oggi in punto (22 gennaio) undici anni: ei sedeva là nella cameretta, ove a' raggi d'un bel sole e di due begli occhi sedè talvolta con lui il nostro povero Gommi: avea l'animo pieno del sacro Dante, di cui, anche in quel giorno forse, era stato a visitare il sepolcro: apriva a caso la Storia delle Letterature dello Schlegel e leggeva: mai quel poeta non fu molto popolare in Italia, ec. — Mai non vi fu molto popolare? — Oh ! chi, scrivea tosto nel suo portafoglio, ripetendo con meraviglia queste parole, chi al mondo ebbe mai, più ch'ei s'avesse in Italia, editori, commentatori, ec. ec.? Ed oggi pure gl'Italiani non pensan che a lui, non sognano che di lui; ciò che parrebbe un eccesso ridicolo, se nel culto o nello studio di Dante potesse mai essere eccesso.

I valentuomini, che procurarono l'edizion padovana, detta oggi comunemente della Minerva, e presero per essa a special norma la Nidobeatina, come già fece il Lombardi per la sua, avrebbero pur bramato, il sapete, poter collazionare fra loro tutti i manoscritti migliori. Ed uno di que' valenti, A. Sicca, or va collazionando, dicesi, i varii che sono in Padova e in altre città non discoste; ciò che gioverà pure a qualche cosa, come giovò pocanzi il riscontrarne che fece il Cesari (per le sue Bellezze di Dante) alcuni pochi veronesi e mantovani. Prendendone per lo più occasione dai dubbi lasciati dal Cesari ch'ebbe pur dinanzi (l'obliava) i confronti fatti dal Viviani pel suo Bartoliniano, anch'io sono andato riscontrantando manoscritti diversi; ossia, dopo averne confrontati fra loro due Tempiani, l'uno de' quali chiamerò maggiore, l'altro minore, sono andato facendo riscontri d'ambidue con altri che sono qui, e di cui fra poco vi dirò.

Del Tempiano maggiore (membranaceo, in foglio grande, di 90 carte a due colonne per pagina, con grandi e piccole ma tutte belle e ricche miniature, nitidissimo, conservatissimo ec.) é impossibile che già non abbiate sentito parlare. Poiché vi fu pure un momento che, avendo qualche bibliofilo creduto leggervi in fine della terza Cantica la data del 1328, se ne parlò non poco. Pochi, per vero dire, credevano a quella data. Ed io, guardando a' caratteri quasi gotici del manoscritto, sospettava una data assai meno vecchia, forse d'un mezzo secolo e più. Il mio sospetto fu ben presto certezza , poiché al fine della seconda Cantica lessi scritto di minio e chiarissimo un 1398, del qual tempo i manoscritti son molti, benché non molti i così belli. Di data sicuramente più antica debb'essere il Tempiano minore (cartaceo, in foglio men grande , di 120 carte a due colonne per pagina, senz'altri ornamenti che d'alcuni tratteggi o rabeschi, ma conservatissimo anch'esso) con giunte di cui non potrò dirvi se non tardi, in carattere usuale, non molto corretto, ma spesso di lezion buona, e non indegno quindi della compagnia del maggiore, la cui lezione é per lo più eccellente.

Ed eccellente è pur la lezione di vari, com'è rara la bellezza d'alcuni da' manoscritti, che ho lor posti a riscontro; undici in tutto, non avendo voluto toccar quelli delle pubbliche biblioteche, parte già adoperati da diversi editori, parte consultati di nuovo da chi scrisse pocanzi nell'Antologia intorno al Veltro Allegorico e ad altri particolari della D. Commedia, e diede pur saggio d'un suo nuovo Comento al meraviglioso poema.

Primo fra gli undici debbo annoverar quello, ch'era un tempo dei Malaspina ospiti di Dante, ed ora é nella libreria del fu conte di Bouturlin. Ciò, che ne disse l'Audin nostro nel Catalogo di quella libreria, m'invogliò grandemente di vederlo all'uopo che vi accennava; l'amicizia dell'egregio Migliarini, pittore e archeologo romano della reputazion che sapete, me ne aperse la via; la singolar gentilezza d'un colto inglese, il sig. Schloan, me ne diede tutto l'agio. Potrebbe il manoscritto non essere, qual da taluno si crede, del principio del secolo decimoquarto. Potrei io anche aver fatto un bel sogno, credendo di leggervi in fine un 1362. Non ho sognato sicuramente, credendo trovarvi rarissimi pregi, che già descritti nel Catalogo appena han d'uopo d' esser qui ricordati da me.

Noti, se non descritti, son pure i pregi d'un altro, che bramai di vedere subito dopo, e in grazia del quale ne vidi ad un tempo otto di più. Parlo del famoso manoscritto o codice Vecchietti, oggi posseduto cogli otto che vi diceva e con tant'altri tesori de' primi tempi della lingua dal marchese Giuseppe Pucci, che amantissimo delle lettere e di chi le coltiva mi concede di partecipare quanto m'e a grado a questi tesori. Cosa più cara di quel manoscritto (in foglio piccoletto e membranaceo, con miniaturette gentili ec.) si cercherebbe indarno. Io non so dirvi bene se sia esso anteriore o posteriore alla metà del secolo decimoquarto. So che fra i manoscritti di quel secolo è fior vero di leggiadria. Fior vero di correzione, giudice il Fiacchi il qual vi appose un ricordo, è un altro sicuramente più antico (membranaceo anch'esso e in foglio più grande) stato già Ricasoliano, e forse allora perfetto, ma oggi in più parti sgraziatamente mancante. Citandolo in seguito avverrà probabilmente ch'io lo chiami il Pucciano Correttissimo, mentre darò al Vecchietti l'appellativo d'Elegantissimo. Anche il Vecchietti, però è corretto abbastanza, o piuttosto è da annoverarsi fra i più corretti. Ed ove darebbe per sè lezione men corretta o meno poetica, ne ha sovrapposta quasi sempre una più corretta o più poetica. La qual particolarità, che fa sospettare due generazioni di manoscritti primitivi della D. Commedia, potria per avventura servir di filo in quella classazione che proponea di Breslavia il nostro Witte l'italico con sua circolare de' 24 decembre 1826, che voi ben ricorderete, e ch' io non seppi rammentarmi che troppo tardi. Però ebbi ad arrossire dinanzi a lui quando fu qui l'ottobre dell'anno scorso, e, chiesto indarno di vedere i Tempiani, il cui possessore era assente, venne meco a vedere e raffrontare alcun poco i Pucciani, fra' quali, oltre i due già detti, ne sono pur altri che meritavan da lui quest'onore.

Anch'esso è molto corretto, e preferibile, parmi, per lezione ad altro (pur membranaceo e in foglio più grande), egualmente antico forse che il Correttissimo, e ch'io chiamerò il Nobile. Questo ho io consultato men costantemente di quelli, di cui vi ho detto innanzi. Men costantemente ancora ne ho consultato un altro, del tempo forse del Tempiano maggiore (e membranaceo come questo e in foglio) contenente le sole prime due Cantiche, col comento toscano dell'Ottimo e un sopracomento latino d'Anonimo, di cui si valse il Witte per quella sua lettera sulle chiose di ser Graziolo. Di rado per vero dire ne ho consultati tre altri (cartacei e anch'essi in foglio) non meno antichi forse de' più antichi nominati sin qui, ma troppo meno corretti e di lezione per me poco sodisfacente. Sempre invece ne ho consultato e dovea consultarne uno (membranaceo come i cinque antecedenti e in foglio) stato sempre de' Pucci, non correttissimo, non di lezione sempre sicura, ma che tra i manoscritti conosciuti della D. Commedia può chiamarsi l'Antichissimo.

Chè né il Vaticano più celebre né lo Stuardiano, sia pur l'uno o l'altro quello di cui il Petrarca fece dono al Boccaccio, vorrebbe chiamarsi così, non avendo data sicura. Fra i quattordici, che furono già di Pier Del Nero, il Poggiali che in seguito li possedè, e forse il Biscioni che in un suo catalogo già li descrìsse, confidava che ne fosse uno del 1330. Quel manoscritto con quattro altri e col catalogo già detto ora è smarrito, chè nella Palatina (me n'avvisa il bibliotecario di questa), ove passarono i testi del Poggiali stampati e manoscritti, esso non si ritrova. Come però la sua data era congetturale, il titolo d'Antichissimo si competeva piuttosto a quello sì celebre del marchese Landi di Piacenza, stato già dei Beccheria Pavesi, poi a quello del marchese Trivulzio di Milano, stato già d'un Nardi di Barberino, e di cui abbiamo un facsimile nell'edizione del Bartoliniano. Il primo infatti ha la data sicura del 1337, l'altro, come sapete, del 1336. Il Pucciano, di cui vi parlo, ha quella del 1335.

Per uno di que' piccoli avvenimenti, che a noi curiosi delle vecchie cose riescon sì grandi, fui ansiosissimo un istante di vedere un altro manoscritto, che fu già del marchese Strozzi di sempre cara memoria ed oggi è degli eredi: il manoscritto, ne' cui cartoni erano un ritratto di Dante e il più antico forse che si conosca di Beatrice, acquistati dal Missirini che li fece disegnare (ecco l'avvenimento) e proponevasi d'illustrarli. Assicurato, credo dal Missirini medesimo, che il manoscritto è del secolo decimoquinto, pensai che il vederlo mi sarebbe d'egual sodisfazione anche in altro tempo, giovandomi per ora non uscir da quelli del secolo antecedente. Tale, per quel che parmi, si è uno in foglio e cartaceo, ma de' più corretti e di miglior lezione, posseduto dal cav. Frullani letteratissimo fra' nostri scienziati, e da lui affidato ad un comune amico, presso il quale si trovan ora anche gli altri che vi ho descritti, e al qual debbo d'averlo veduto benché troppo tardi, e però troppo poco.

Quel ch'io, guardando più o meno or nell'uno or nell'altro di tutti questi manoscritti, m'abbia notato di più notabile, vi piacerà sicuramente di saperlo, per farne voi pur qualche nota a ciascuna delle tre Cantiche, già prese, m'imagino, da' vostri scaffali, e recatevi sotto gli occhi sul vostro tavolino.

Avrei dovuto cominciare dal primo capitolo della prima. Non so quale ansietà, che troverete assai naturale, mi fece cominciar dal secondo. Voi sapete come siasi disputato intorno al verso 60 di questo capitolo. E durerà (la fama) quanto 'l mondo lontana lessero già il Nidobeato, il Lombardi ec.; e questa lezione, che piaceva moltissimo al Monti, fu adottata ultimamente dal Costa, dal Rossetti, dal Borghi ec. E durerà quanto 'l moto lontana lessero già gli Accademici e innanzi a loro il Vellutello, e questa lezione, che piacque molto al Magalotti, al Torelli, al Poggiali, al Biagioli ec., fu adottata a prima giunta anche dagli editori della Minerva, difesa ultimamente dal Cesari, non rigettata dal Foscolo, ec. Ma l'una avea per sè l'autorità di non so quanti codici riguardevoli, un Casinese, un Chigiano, un Corsiniano ec., ai quali s'aggiunse in fine anche il Bartoliniano. L'altra non l'avea, ch'io sappia, d'altro migliore che quello, il qual fu, dicesi, di Marsilio Ficino, ed ora è conosciuto sotto il nome di Caetano. Mi premeva di sapere, anche per dispute recenti avute con amici, quel che ne dicessero primieramente i Tempiani. Ora, se il minor di questi favorisce la prima, il maggiore, che tanto gli prevale, favorisce la seconda. E la favorisce del pari il Bouturliniano. E la favoriscon pure fra i Pucciani il Nobile, il Magnifico, il Correttissimo, l'Elegantissimo specialmente che la dà per correzion della prima. Nè l'Antichissimo con quel suo moddo equivoco le è assolutamente contrario. Nè contrario assolutamente è quel che chiameremo dell'Ottimo, poichè, se nel testo ha mondo, nel comento ha pur moto: «e dice (il poeta) che tanto durerà la fama sua (di Virgilio) quanto durerà il moto de' corpi celestiali, cioè quanto durerà il mondo, poichè, cessando il moto, cessa generazione ec.». Le quali parole sembran dirette a conciliare l'una e l'altra lezione, e conferman ciò che pensa il Foscolo, che l'una e l'altra vengano egualmente da Dante, il qual forse fra esse stette indeciso.

Sodisfatta una viva ansietà, potei, rifacendomi dal primo capitolo, sodisfare una semplice curiosità. Voi forse vi mcraviglierete ch'essa fosse rivolta al v. 9; ma a rivolgervela bastava bene l'autorità d'un critico poeta, che fra i poeti della scuola di Dante fu acclamato il più illustre. Questo critico, il qual si persuadea facilmente che le lezioni, che a lui sembravano più poetiche, fossero le più vere, sosteneva a voce, e non so se anche in iscrìtto, ch'ivi fosse e leggersi non altre cose ma alte; lezione che non dispiaceva al Lombardi, che il Dionisi avea trovata in più codici, che il De Romanis, credo, avea pur trovata nel Caetano. Era dunque naturalissimo ch'io cercassi se mai si trovava in qualcuno de' Tempiani, e poi degli altri che vi ho detti. Ma i Tempiani e gli altri non mi dieder che la lezione ordinaria.

Io m'era già tornato da un pezzo al secondo capitolo, quando l'autore degli ultimi scrìtti antologici intorno a Dante mi fece, per un'altra curiosità che seppe ispirarmi, ritornare al primo. In uno di quegli scritti ei rammentò e mostrò non dispregevole quella variante al verso 42, che trovasi nel Comento del Boccaccio, che par confermata da una chiosa di Piero figliuolo di Dante nel codice Laurenziano di Filippo Villani, che ha in favor suo il codice Vaticano più famoso, e per la quale dovrebbe leggersi Di quella fera alla gajetta pelle invece di la gajetta. Al Vaticano, però, al Laurenziano ec. non corrisponde alcuno di quelli che ho avuto sotto gli occhi. — I più invece corrispondono al Bartoliniano, che al v. 108 del capitolo secondo, a cui già vi dissi d'esser tornato, scrive (ciò che al Cesari parea bellissimo) onde 'l mar non ha vanto, invece del solito ove, che pur trovo nel Tempiano minore, nel Bouturliniano, e, fra i Pucciani più riguardevoli, nel Nobile.

L'autore degli scrìtti antologici mentovati pocanzi ha creduto di trovare, in quel ch'ei chiama Inferno d'Armannino, non so quale autorità in favore dell'io eterno duro, che nel cap. 3.° v. 8 si amerebbe sostituire al solito eterna. Questa lezione, per vero dire, è data da codici famosi, il Vaticano, l'Angelico, altri non pochi, e fra essi il Bartoliniano, ai quali or debbo aggiugnere i più di quelli che ho veduti. Quindi parrà che, ad onta della Nidobeatina, dovesse pur adottarsi come si fece dagli editori della Minerva, dal Borghi, da altri forse che son venuti dopo. Nè io penserò di dar vittoria all'autor degli scrìtti antologici e a chi amerebbe con lui la sostituzione già detta, notando che alla Nidobeatina s'accordano almeno il Tempiano maggiore, il Correttissimo fra' Pucciani, ed anche il Frullani, degno della lor compagnia. Ove l'autorità di questi sembrasse di qualche momento, verrebbe l'editor del Bartoliniano coll'autorità della critica e direbbe «far d'uopo d'uno sforzo di pensiero per volger un aggettivo in un avverbio, per prender l'eterno in significato d'eternamente ec.». Se non che lo sforzo, se sforzo è veramente, non par qui necessario, potendosi l'eterno intender del loco (vedete subito dopo) ove stanno le genti dolorose ec. AI qual loco (e qui pur valga l'autorità della critica) più che alla sua porta si addice l'idea dì eterna durata, ec. ec.

Il Vaticano, l'Angelico, tutti i codici forse dell'eterna duro, non peraltro il Bartoliniano, ci dicono che quel loco(v. 8, cap. 4.°) trono accoglie d’infiniti guai. Il Bartoliniano ci dice torno; ciò che pur mi dicono i due Tempiani, ai quali potrei forse unirne qualch'altro che dice 'ntorno. Il tuono accoglie, che oggi si trova in molte edizioni, e che par sì poetico, da' codici che ho dinanzi non m'è riuscito di ricavarlo. — Chi (al v. 11) ami leggere, come amava il Cesari, ficcar lo viso a fondo, piuttosto che al fondo, ha contrario il Tempiano maggiore e fra' Pucciani il Nobile; ma favorevoli tutti gli altri di cui può giovar il favore. — Chi (al v. 26) vuol leggere mai che di sospiri, piaciuto al Lombardi, al De Romanis, al Costa ec., invece del ma che, piaciuto al Napione, al Perticari, al Biagioli ec., ha pur contrario quel Tempiano e fra i Pucciani il Nobile e il Magnifico, ma ha favorevoli il Correttissimo e gli altri. — Tutti indistintamente li ha favorevoli chi (al v. 68) ami leggere di qua dal sonno, lezion che sembra poeticissima, invece di qua dal sommo, che pure è in molte edizioni anche recenti e accreditate.

Al v. 107 del cap. 5.° diceva il Cesari (e il simile avea pur detto il Monti) doversi leggere «co' migliori codici e colla ragione» chi vita ci spense invece del vecchio chi in vita ci spense. E il Costa si era volto con fiducia ad una lezione approvata da un Monti e da un Cesari; ma poi, sull'avviso, com'ei narra, del Betti, fece ritorno all'altra. Prendendone avviso da' codici che ho dinanzi, o serberebbesi il chi vita, ch'è del Tempiano maggiore, del Nobile fra i Pucciani e di quello dell'Ottimo, com' è del Bartoliniano; o si adotterebbe il chi a vita ch'è del Bouturliniano, del Magnifico, dell'Elegantissimo, del Correttissimo e dell'Antichissimo fra i Pucciani, com'è del Vaticano più celebre.

Il parole non ci appalcro , v. 60 del cap. 7.°, eccovelo nel Bouturlini.ino, nell'Elegantissimo e nel Correttissimo fra i Pucciani. Gli altri più riguardevoli fra questi ed anche i due Tempiani danno il non ci pulcro del Vaticano e del Bartolmiano. Nessuno però dà il parlare, che leggete in questo secondo invece di parole, e ch'è da mettersi con quel suo mal che di sospiri, già troppo noto, e che pocanzi obliai. — Il mia sentenza imbocche del v. 72 è nei due Tempiaui. Gli altri riguardevoli che ho veduti ripetono il ne 'mbocche di tante edizioni, che si ha pure dal Bartoliniano.

Ma ecco un verso (il 70 del cap. 9.°) che mi risveglia nell'animo più rimembranze. Vi rammentate voi della burrasca da cui fummo assaliti là fra le selve della Vallombrosa? Noi lo abbiamo veduto il vento, che li rami schianta, abbatte e porta fuori, con quel che segue ne' terzetti che voi allora andavate ripetendo. Chi di noi allora avrebbe potuto preferir la lezione e porta i fiori, che pur è preferita dal Poggiali, dal Biagioli, dallo Strocchi, dal Costa, dal Borghi, dal Rossetti? Io non so se questa lezione abbia per se molti codici oltre il Vaticano. L'altra, dicesi, non ne ha molti oltre l'Angelico. Ecco però i due Tempiani, il Bouturliuiano, tutti i Pucciani più rigiiardevoli che leggono fori, come pur legge il Bartoliniano. E già avea notato, or non rammento, se l editor di questo o il Cesari, che un codice Marciano, il quale ha fuore, toglie ogni dubbio circa alla lezion più vera, che raccomando quindi agli editori futuri.

Così mi par da raccomandare, che al v. 97 del cap. 11.°, lasciata ormai la comun lezione Filosofia mi disse a chi l'attende, tutti correggano, come ha già fatto il Borghi, a chi la 'ntende o la intende, conforme al codice Vaticano, al Bartoliniano e a qualch'altro veduto dal Cesari, e conforme pure a' due Tempiani, al Bouturliniano, e a tutti i Pucciani più riguardevoli. — Non ardirei raccomandare che al v. 49 del cap. 12.°, lasciata la lezione O cieca cupidigia , o ira folle, che piacque a' più recenti come a' più vecchi fra' nostri accreditati editori, si sostituisse e ria e folle, conforme al Bartoliniano e ad altri codici, e conforme pure ai due Tempiani, all'Antichissimo e all'Elegantissimo fra i Pucciani. Che altri fra questi conferman pure la prima; e la conferma forse anche quel Trivulziano , ove è scritto così diversamente da tutti gli altri e dira e folle. — Al v. 3 del cap.14.° raccomanderei, se fosse d'uopo, di non scrivere più E rendèla a colui ch'era già roco, ma bensì ch'era già fioco, come hanno già fatto i migliori editori, e come si legge ne' migliori codici da me veduti, e ai quali in ciò è conforme il Bartoliniano.

Questo codice, al v. 3 del cap. 15.°, allontanandosi dalla lezion comune Sì che dal fuoco salva l'acqua e gli argini, ce ne mette innanzi un'altra, in cui gli ultimi due nomi non sono uniti da alcuna particella congiuntiva. E il Cesari osserva saviamente che tal lezione debb'esser la vera «da che quel che importava salvar dalle fiamme eran gli argini e non l'acqua». La lezion medesima è confermata, se pur bisognava, e dal Tempiano maggiore e dal Pucciano Antichissimo e dall'Elegantissimo, e forse da altri che non ho curato di consultare. — Da nessuno dei molti che ho consultati, cioè da nessuno de' più riguardevoli ch'ebbi dinanzi, confermasi la lezione del v. 29 E chinando la mia alla sua faccia, ch'è nel Bartoliniano, che fu già data dal De Romanis sulla fede del Caetano, adottata dal Costa e dal Borghi, approvata dal Monti e dal Cesari ec. Però esiterei a ripudiare il chinando la mano ec., che gli editori della Minerva presero dal Nidobeato, che il Biagioli difese ec. ec. — Non so se il Cesari intendesse dell'edizione del Nidobeato, seguito in ciò pure da quelli della Minerva, quando giunto al v. 66, che nelle comuni edizioni leggesi come sapete, ei dicea: «una pregiata edizione ha Si disconvien fruttare il dolce fico, cha par lezione tanto migliore». Or questa lezione, già adottati dal Costa, è pur nel secondo Tempiano, ed è anche nell'Antichissimo e nel Magnifico fra' Pucciani, che son ora da aggiugnersi al Vaticano, e, se ben mi rammento, anche all'Angelico.

Del s'accorrien con le mani (cap. 17.° v. 47 ) che leggesi invece del solito soccorren o soccorrien, nel cod. Bartoliniano, e difendesi dal suo editore, nulla ne' codici da me veduti. — Dell'altro forte (v. 95), ch'è pur nei Bartoliiiiano, che fu letto dal Torelli non so dove, che piaceva al Cesari più dell'alto forte del Nidobeato, più dell'alto e forte degli Accademici ec., nulla ne' miei codici se non forse nel Tempiano maggiore ov'è altri forte, e in alcuni de' men corretti ov'è altro forse. La lezione, che dissi, del Nidobeato è la favorita dai più. — Favorita da tutti, come dal Bartoliniano a da altri già prima conosciuti, è pur quella del Nidobeato al v. 124 E vidi poi che no 'l vedea davante, a cui il Cesari, il Biagioli ec. proferiscono l'udi' poi che non l'udia degli Accademici.

Sapete la gran questione intorno al v. 12 del cap. 18.°, La parte dov'e' son rendon sicura, qual gli Accademici il leggono. La questione fu sciolta primamente dalla diligenza del Dionigi, che nel codice di F. Villani, ad onta delle raschiature, lesse già rende figura; poi da' ragionamenti del Monti, che provò co' riscontri d'altri passi di Dante dovere esser questa la lezion vera, ec. E poteva pur sciogliersi, osserva l'editore del Bartoliniano, colle stampe più antiche, e con cinquanta altri codici, che tutti, come il Bartoliniano, si conformano in ciò a quel del Villani. A tanti codici son ora da aggiungersi il Tempiano maggiore, il Bouturliniano, il Pucciano Antichissimo, a cui, non ne dubito, si associerebbe il Correttissimo, se qui come in altre parti non fosse mancante. — Altra questione sul v. 43, che nelle stampe comunemente leggevasi, come ancor oggì si legge in quella del Biaigioli e degli editori della Minerva, Perciò a figurarlo gli occhi affissi. Al Lombardi, al Cesari ec. piacque piuttosto di leggere colla Nidobeatina i piedi affissi; lezione che si trovò anche nel Bartoliniano. Il Tempianu maggiore, il Bouturliuiano, il Pucciano Antichissimo, il Magnifico, l'Elegantissimo si uniscono a quel codice.

Hanno fatto bene, parmi, e gli editori della Minerva e il Costa e il Borghi, a lasciar intatto quel verso 45 del 19.°, ove taluno invece del se o si piangeva avrebbe voluto leggere spingava o altro. Tutti i codici da me veduti danno (e la dà pure il Bartoliniano) la lezion rispettata da que' filologi. — Il si men portò del v. 128, lezion che piacque al Lombardi, al Cesari ec., ma a cui da altri anche recentemente fu preferito il me portò, é pur data dai due Tempiani, dal Bouturliniano, e dall'Elegantissimo fra i Pucciani.

Piacque pure al Cesari lì al v. 12 del cap. 20.° legger tra 'l mento e 'l principio del casso, anzichè dal mento al principio, che pur trovo nelle edizioni più recenti e più pregiate. Stavano per lui, come sapete, i codici Vaticano e Caetano. E stanno pure, se vi piace saperlo, i due Tempiani, il Bouturliniano, l'Antichissimo ed altri fra i Pucciani, p. e. l'Elegantissimo. — Quasi tutti i codici da me veduti stanno pel Lombardi e per gli altri che al v. 65 vollero Pennino, non e Appennino. Della lezione proposta dal Lechi e comunicata dal Torri agli editori della Minerva; di quella d'un testo Ambrosiano data in nota dall'editore del Bartoliniano non trovo riscontri. — II rifiede, sostituito saviamente dal Lombardi nel v. 105 al risiede di molte edizioni, àè pur ne' migliori codici che ho veduto, com'è nel Bartoliniano.

Passo sopra que' lessi dolenti (v. 136 del 21.°), che mai non avrebbero dovuto introdursi nelle stampe, poi ch'era sì facile riconoscerli per fallo d'amanuense ne' manoscritti, fra cui vo' pur credere che molti dian lesi come il Tempiano maggiore. Del lassi che dà il Bartoliniano, del fessi che il Cesari dice leggersi in qualch'altro codice, in quelli, ch'io ebbi innanzi, non trovo riscontro. — Così io avea già scritto e stampato, quando un amico, avvenutosi a veder meco le prime stampe: di sì poco momento adunque, mi disse, vi par che sia la gran concordanza de' manoscritti, che danno le parole su cui passate sopra sì di leggieri? Dante, mi opporrete forse col Lombardi, non può aver chiamati lessi dolenti quelli che più sopra ha chiamati gente incesa. Oh perchè no, s'egli erano nella pegola spesta che bollìa, al che guardando il Lombardi mai non avrebbe dovuto interpretar l'incesa per arsa. Ma lessi, mi opporrete con altri critici, é ridicolo, avvilisce il discorso ec. Oh que' critici sanno per l'appunto come suonasse quella parola all'orecchio de' contemperanei del poeta, hanno ben posto mente all'intonazione, se così posso esprimermi, di tutto il capitolo, per decidere se quella parola ne discordi, o non ne discordi, ec. ec. Su via: non muterete voi questo paragrafo? — Aggiugnerò, io risposi, le vostre osservazioni.

Al cap. 22, v. 138 leggesi comunemente, e credo che leggasi bene, E fu con lui sopra 'l fosso ghermito; onde il caldo sghermitore che vien dopo, e intorno a cui é da ricordarsi la nota del Monti recata dagli editori della Minerva, e quel che dice l'editore del Bartoliniano. «In un codice, notava il Cesari, si legge gremito, che varrebbe nel fosso pieno di barattieri». Io non so quel che a voi possa sembrare di tal lezione. Essa non ha per sè dichiaratamente alcuno de' codici da me veduti. Pure il Pucciano Antichissimo che dice ingremito, e il Magnifico che dice grimito, sembrano favorirla.

Se a voi pure, invece del salvo che questo è rotto (v. 136 del cap. 23.°) sembra più ragionevole il salvo ch'a questo: é rotto ec., già adottato in alcune edizioni sulla fede del codice di F. Villani, poi fra altri del Bartoliniano, e avvalorato dalle osservazioni del Monti, vi piacerà l'udir che si trovi anche nel Tempiano maggiore e nel Bouturliniano. — Nessuno de' codici, che ho avuto dinanzi, mi dà il s'e' fior ec. immaginato dal Cesari al v. 144 del cap. 25.° Il se fior la penna abbona della Nidobeatina, trovatosi nell'Angelico, poi nel Bartoliniano, difeso dagli editori della Minerva, adottato da altri, è pure ne' due Tempiani, nel Bouturliniano, nell'Antichissimo, nell'Elegantissimo e nel Magnifico fra i Pucciani.

Dall'istra ten va, che trovo ne' due Tempiani, nel Bouturliniano e nel Magnifico (v. 21 cap. 27.°) esce, s'io non m' inganno, l'ista', ten va', che potrebbe sostituirsi all'issa ten va' delle edizioni con meno arbitrio dello statti va', che molto piaceva al Cesari nel Bartoliniano. Sta', ten va' dice chiarissimamente l'Elegantissimo pur citato pocanzi. L'Antichissimo dice istar, nel quale può leggersi un ista' lo stesso che sta'. Dell'aizzo e molto meno dell'attizzo d'alcuni codici (verso medesimo) nessun vestigio in quelli che ho avuto sottocchio. — Se il tu m'insegna fare della Nidobeatina (v. 101) piace a voi pure, come al Cesari, più che il m'insegni fare d'altre edizioni ed anche del Bartoliniano, ecco, con voi il Tempiano maggiore, il Bouturliniaino, a due Pucciani, che sempre si citano volentieri, l'Elegantissimo e il Magnifico.

Al v. 103 del cap. seguente piaceva al Cesari di leggere col codice Poggiali e il Bartoliniano per la gente, non della gente Tosca; e credo che piacerà pure a voi. Perchè la lezione di que' due codici sia più francamente adottata, giovi il dire ch'è pur la lezione de' due Tempiani, del Bouturliniano e de' più ragguardevoli fra i Pucciani. — Non è che d'un solo di questi (or non so dirvi se del Magnifico o dell'Elegantissimo) la lezione al re giovane, ch'è pur nel Bartoliniano e nel Florio (v. 135) invece dell'altra solita al re Giovanni. Le dispute, a cui han dato luogo queste due lezioni, son narrate distesamente dagli editori della Minerva, che rìtenner la solita, e da quello del Bartoliniano, a cui piacque l'altra. Prima di risolversi ad un cangiamento, che obbliga pure, come sapete alla trasposizione d'un verbo, gli editori futuri , m'imagino, vorranno ancora pensarci. Il Novellino Antico, è vero, disse, come dicon gli storici generalmente, il re giovane. Ma Dante può, per isbaglio perdonabile, aver detto veramente al re Giovanni, poichè così pur disse Gio. Villani.

Ritenete pure al v. 39 del cap. 29.° il Se più lume vi fosse tutto ad imo della Nidobeatina, che, oltre i codici Vaticano e Bartoliniano, ha per sé tutti quelli che ho avuto dinanzi. — Così al v. 87 del 30.° ritenete pure il suo men d'un mezzo, che ha in favore tutti questi miei codici, compreso di nuovo il Correttissimo. — Non oso dire: ritenete pure al v. 132 del 31.° il suo Ond'Èrcole sentì già grande stretta, che ha pur in favore tutti questi miei codici, poiché la lezione del Bartoliniano Ond'ei d'Ercol senti la grande stretta, e le ragioni per cui il possessore e l'editor del medesimo la riguardano come l'unica ammissibile, se non mi movono quanto già mossero il Cesari, mi tengono almeno molto sospeso.

Ottimamente il Cesari al v. 41 del 33.° disse che il Pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava del Bartoliniano é assai più vivo del solito al mio cor s'annunziava. Or vedendo, com'esso è pure di tutti i codici più riguardevoli che ho avuto dinanzi, aggiugnerei quasi ch'esso è il più autentico. — Della lezione di quel codice I' fui conte Ugolino (v. 13) invece del solito io fui il conte non mi rammento se il Cesari dica nulla. Anch'essa però è di tutti o quasi tutti i codici di cui vi parlo. — Di tutti, come ben pensate, è il parlare e lagrimar vedrai o vedrami insieme ch'io neppur noterei, se qualche codice, veduto dall'autore degli scritti antologici ricordati più sopra, non desse m'udrai, che a taluno può sembrar preferibile. E a giudicarne co' principii, con cui il Colombo p. e. giudicò del luogo e tempo aspetta del Petrarca, bisognerebbe condannare anche il vedrai d'improprietà. E 1'uno e l'altro furon condannati di fatti, e forse il furono insieme, poichè furono insieme difesi, dal Bertini fra gli altri nel suo libro più spiritoso (la Giampaolaggine) alla risposta quattordicesima. Il vedrai fu anche difeso dal Perticati (vedute presso gli editori della Minerva) con belle e lottili ragioni. A difenderlo pienamente gioverà, credo, notare il largo uso che sempre, ma in antico più specialmente, fu tatto del verbo vedere: Stava con gli orecchi levati per vedere ch'è della G. 7 , n. 4 del Boccaccio; Ancora ti dico. . . . che quel petrone dove stette questo benedetto corpo, stato scoperto all'acqua e al vento, gitta si grande odore ch'è cosa incredibile a chi nol vede ec., ch'è del Viaggio del Sigoli. — L'autore degli scritti antologici, che pur guardando a qualche codice avvertì doversi al v. 45 dell'ultimo capitolo leggere onde 'l Nilo e non ove 'l Nilo s'avvalla, sarà lieto d'udire che la lezione da lui difesa, e ch'è pur quella che si conforma alla geografia, trovasi in tutti i codici da me veduti, compreso il Frullani.

Avvicinandomi al fine della Cantica, mi son lasciato ire ad alcune digressioncelle, schivate innanzi per non riuscir troppo lungo, il che non so dir veramente se sia peggio del riuscire monotono. Ma ora le digressioncelle mi sembran quasi necessarie, come riposo o intermezzo, senza di cui può venire a noia anche una Commedia Divina. Esse però saran poche e, secondo il buon uso degli antichi intermezzi, non ci dilungheranno col pensiero dalla Commedia.

Diceva pocanzi avere il Perticari difeso quel vedrai ec. con ragioni belle e sottili. Ciò mi fa risovvenire un altro modo dantesco, che non mi accadde notare fra le varianti, ma in cui il cercar le varianti mi fece incontrare, e ch'egli difese insieme a spiegò con belle e sottili considerazioni. E il famoso se del venire io m'abbandono, che leggesi al v. 34 del cap. 2.°; e le considerazioni, di cui vi parlo, son recate anch'esse dagli editori della Minerva. Anche ad esse intanto può aggiugnersi qualche cosa di più semplice e di più decisivo, l'uso, cioè, di cui Dante fu avveduto osservatore, e a cui andò debitore più che non si pensa. Io non ho per l'abbandono come pel vedrai esempii di scrittori del trecento, che mi dieno indizio dell'uso di quel secolo. Ma ne ho uno di tal scrittore del cinquecento (il Vasari in una lettera del 1554) che, adoprando la lingua del popolo piuttosto ghe quella de' letterati, sembra attestare un uso antichissimo. «Non ho mancato, con ogni maniera di fatica, studio e diligenza fare in tal suggetto (una pittura della Pazienza, che il vescovo Minerbetti, a cui scrive, gli avea commessa ) quello si conveniva per satisfarla, ed ancora n'ho preso consiglio dal mio gran Mìchelaguolo, che, mostrando quanto egli stimi voi e cerchi satisfar me, n'ha ragionato molte volte; niente di meno, come vecchio, se n'è abbandonato; non avendo potuto esprimere il suo concetto com'egli avria volato».

Io era in questo pensiero dell'uso della lingua e del riguardo che sempre gli si dovrebbe nell'interpretazione di Dante, quando un mio giovane e ingegnosissimo amico, G. Tassinari, mi scrìveva da un suo ameno poggetto di Val di Pesa una lettera tutta piena d'osservazioni dantesche, la prima delle quali, riguardante il v. 37 e i due seguenti del cap. 18°., concordava appunto col mio pensiero. Ahi come facean lor levar le berze, dice quel verso coi due seguenti, Alle prime percosse! e già nessuno Le seconde aspettava nè le terze. Quel che dicano di tal verso i  commentari già lo sapete e potete rivederlo. Quel che me ne scriveva 1' amico, eccolo qui: «Il nostro popolo usa del verbo berciare e suoi derivati in senso di strillare a pieni polmoni, e ciò fecemi dubitare se questo non fosse il significato inteso nel nostro caso da Dante (la sostituzione della z alla c non mancherebbe di esempi tra le licenze del poeta), invece di quel battere di talloni voluto da' chiosatori e descritto dappoi ec. In mancanza di documenti in favore di questo mio povero amico plebeo (il berciare), che aspira alla cittadinanza della lingua, ho scovato, egli aggiugneva scherzando, questo diploma del principe della favella, non attentandomi d'umiliarlo al gran concistoro arbitro dell'aristocrazia delle parole, perchè non me lo danni di falso e mi ricacci in mercato, ec.».

La sua spiegazione del levar le berze vi lascierà forse un po' dubbio; un'altra da lui data al verso 93 del cap. 4.° vi parrà sicurissima. Simile spiegazione già era stata pensata dallo Scolari e ricordata quindi dagli editori della Minerva, e non so se anche dal nostro Cioni in una delle sue Riviste Dantesche, che sono nell'Antologia. L'amico non si era in essa avvenuto, e però a quel verso Fannomi onore e di ciò fanno bene diceva, che i chiosatori ci cantano in coro = insegnare il poeta esser debito uffizio degli uomini onorar la sapienza = insegnamento che, in bocca di Virgilio da cui si suppone pronunziato, a lui sembra millanteria. «Qui,  a mio credere, ei soggiungeva , Dante non ha inteso di dire se non che = ciascun poeta beavasi di far onore a Virgilio = sentenza che ha più del modesto e cortese ec. ec.». La quale spiegazione, nuova per lui se non per noi, fa sembrare più vera quella dello Scolari, e avvalorata da quella dello Scolari ci si presenta essa medesima con più autorità.

Altre sue spiegazioni più nuove avrò a citarvi in seguito negli altri intermezzi, dopo cioè l'altre Cantiche o parti della Commedia, alla seconda delle quali eccomi senz'altro indugio.

 

 

 

Lettera ottava – Continuazione

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Lettera ottava intorno a' Codici del march. Luigi Tempi (Continuazione e Conchiusione)

 

Anche senza le critiche del Tassoni o dell'Ottonelli al Vocabolario, il suol presso del mattino, scelto dagli Accademici fra varie lezioni al v. 13 cap. 2.° di questa seconda Cantica, doveva esser presto rigettato. Il sorpreso dal mattino, che gli Accademici lessero in tre codici, che poi si trovò anche in quello di F. Villani, e che tanto già piacque al Castelvetro, non doveva piacere a molti. Ancor meno dovea piacere il soppresso dal mattino della Nidobeatina, difeso assai tardi, credo per semplice prova d'ingegno, dal Portirelli, e interpretato da altri quasi sinonimo del sorpreso che già dissi, e di cui par loro una conseguenza. Piacque invece il sul presso del mattino, che si leggeva nell'Aldina, che si trovò poi nel famoso codice Magliabechiano col comento del Buti, che ricomparve nel Bartoliniano, che approvato dal Lombardi, dal Torelli, dal Monti ec. divenne alfine lezion comune. Nove altri codici Magliabechiani intanto, avvertiva il Fiacchi in un suo ragionamento su vari luoghi di Dante, ch'è nel 2.° vol. degli Atti della Crusca, davano sol presso del mattino. E a questi codici or debbo aggiungere il Tempiano maggiore, il Bouturliniano, e i più ragguardevoli tra i Pucciani, tranne l'Elegantissimo che dà sul presso del ec., e l'Antichissimo che dà, come pur notò il Fiacchi, sopresso (dell'istessa generazione che il lunghesso, il sottesso ec. pur usati da Dante); lezione che il Fiacchi preferiva all'altre, che forse è confermata dalla Nidobeatina, e senza forse da un bel codice Ricasoliano. — E l'Antichissimo, solo anche questa volta fra i codici da me veduti, dà pure al v. 44 la graziosa lezione Tal che faria beato pur descrìpto, che il De Romanis prese dal cod. Caetano, e che poi si trovò nel Bartoliniano, nel Florio e in qualch'altro. — Coll'Antichissimo si unisce il Magnifico a darci il v. 93 qual già cel diedero gli Accademici, sulla fede per vero dire di pochi codici, e per ragioni tuttavia controverse, di che è lungo discorso presso gli editori della Minerva. I più de' codici da me veduti lo danno qual si legge nella Nidobeatina e nell'Aldina, e gli Accademici stessi il lessero in più di 90 codici, ai quali si conforma il Bartoliniano. Il Tempiano maggiore intanto ripete il verso datoci dagli Accademici, con tanto solo di varietà/che senza alterarlo il rende più elegante: Ma a te corn'è, diss'io, tant'ora tolta? Dell'arte imaginata dallo Strocchi, a cui non piacque nè il tant'ora nè il tanta terra, nulla in questi codici. — I più di essi ripetoni pure il v. 98, qual si sta nelle edizioni e ne' codici generalmente, Chi ha voluto entrar con tutta pace. Il Tempiano minore, però, il Bouturliniano e fra' Pucciani il Nobile, che poi si corregge, danno l'e terrà d'alcuni codici indicati dal Cesari. — Il Noi eravam tutti fissi e attenti (v. 117), ch'è nel Bartoliniano come nel Caetano , che piacque al Cesari, al Costa , al Borghi ec., come al De Romanis, non è, per vero dire, in alcuno de' codici da me veduti. Non però voi vorrete ritornar col Biagioli al Noi andavam ec., contradetto da uno de'versi che seguono.

In quasi tutti i rodici che ho avuti dinanzi, non peraltro nel Tempiano maggiore, leggo al v. 40 del cap. 3.° e disiar vedessi invece di vedesse. Nè, quando pure il leggessi in tutti, mi persuaderei facilmente come il Cesari, a cui tal lezione si presentò in altri codici, che secondo essa «Virgilio dalla umana gente passi a parlar a Dante» potendo essa credersi idiotismo degli amanuensi o licenza del poeta. — E licenza del poeta non error di scrittura o di stampa, come il Cesari dice, è probabilmente il quei o que' che volentier perdona del v. 120; e come parmi troppo più grazioso del grammaticale quel che vorrebbe sustituirglisi; e come trovasi in  tutti questi miei codici egualmente che  nel Bartolitiiano, desidero che si trovi quind'innanzi in tutte le stampe.

Buona forse al v. 22 del cap. 4.° la lezione della Nidobeatina, confermata dal cod. Vaticano e dal Bartoliniano, Che non era lo calle onde saline. Il Bouturliniano la conferma esso pure, e l'Antichissimo fra i Pucciani col suo la calle non sembra contradirla. Gli altri intanto, che ho veduti, hanno la calla, a cui l'Elegantissimo come per chiosa sovrappone callaja; e la chiosa deriva naturalmente da' versi che precedono Maggior aperta molte volte impruna ec.; ai quali mi meraviglio che il Biagioli, difendendo la lezione ch'io pure difenderei, non abbia posto mente. Di quella singolar lezione, la scala, che l'editor del Bartoliniano vide in non so quali due codici, nulla ne' miei. Ma essa non è lezion da fermarvisi più che — quella del Bartoliniano medesimo (v. 129 del cap. seguente) Poi di sua pietra mi coperse ec., a cui peraltro si fermò il Cesari. Tutti i miei codici son concordi nella solita e sola poetica lezione: Poi di sua preda ec. ec.

Spiegate come volete quel v. 30 del cap. 10.° Che dritto di salita aveva manco , e sempre vi troverete impacciato. Il Cesari sospettava in esso qualche fallo di scrittura, e non sospettava mal a proposito. Più codici da me veduti, come tant'altri veduti da altri, hanno dricto. Sarebbesi mai con lievissimo cangiamento convertito in dricto un drieto? — Non da spregiarsi sicuramente al v. 120 la lezione del Bartolini;ino e del Florio Già scorger puoi come ciascun si nicchia. I miei codici in generale danno il solito picchia. Il Magnifico peraltro pone il nicchia per variante in una postilla. — Dopo le osservazioni dell'Amaduzzi , del Rosamorando ec., recate per disteso dagli editori della Minerva, non sembra che vi sia più motivo di sospettare error di lezione in quell'entomata in difetto del v. 128; nè quindi bisogno d' adottar correzioni, come l'entoma, proposto, parmi, dal Follini in uno de' suoi ragionamenti accademici, che son negli Atti della Crusca. Nessuno de' codici da me veduti peraltro dà chiaramente entomata, che pur è nel Bartoliniano, il cui editore si sforza di farlo concordare cn\l'atomata del Casinese. Con questo codice possiam porre l'Elegantissimo, il qual dice atomati. Degli altri qualcuno dà automata, i più antomata, che sembra esser 1'entomata non bene pronunziato.

Non bene, giusta l'editore del Bartoliniano, lessero gli Accademici al v. 83 del capo12.° Sì ch'ei diletti lo 'nviarci in suso. Meglio, al dir suo, la lezione Sì che i diletti, cioè diletti a lui, o diletti lui, ch'è nel Bartoliniano medesimo. Il Tcmpiano maggiore e il Boutourliniano danno appunto che i diletti. L'Elegantissimo fra' Pucciani dà che diletti, più conforme alla lezione degli Accademici.

Il Fiacchi in quel suo ragionamento, che già si è citato, provò colla carta del Purgatorio Dantesco alla mano che il si rìsega del v. 2, cap. 13.é° non poteva essere la lezion vera, e che la vera doveva esser piuttosto si rilega. Stanno, a vero dire, per quella prima lezione codici autorevolissimi, il Laurenziano di F. Villani, il Magliabechiano col comento del Buti ec. ec., ai quali è ora da aggiungersi il Tempiano maggiore. Stanno per l'altra il Vaticano ed altri, a cui son ora da aggiungersi quasi tutti i più riguardevoli fra quelli che ho veduti, compresi il Correttissimo e quello dell'Ottimo, ove dal chiosator latino al si rilega è sopraposlo recingitur. Che se il si risega è, come pare, lezione erronea, giovi il notare ch'essa vien forse da una lezione più antica di tutte, cioè rislega, che trovo difatti nell'Antichissimo. — Certo, come dice il Cesari al v. 68, la lezione Così all'ombre quivi, ond'io parl'ora scioglie molte difficoltà. I miei codici in generale non le son favorevoli. Le è però favorevole il Magnifico tra i Pucciani, da aggiungersi per ciò al Caetano. al Bartoliniano ed al Florio. — Al rimendo, che dà il Bartoliniano e qualch'altro codice al v. 107 invece di rimondo, i miei codici in generale sono pur contrarii, ma è favorevole il Magnifico.

Il così tornò del Bartoliniano , del Florio ec., invece del così parlò e più non volle udirmi (ultimo verso del cap. 16.°), è pure di tutti i codici da me veduti, tranne l'Antichissimo, ma compresi il Correttissimo e il Frullani. — Il mentre vocì d'alcuni codici e d'alcune antiche edizioni (v. 34 e seg. del cap. 19.°), confermato dal vociò del Bartoliniano , dal vosò del Farsetti ec., è pure nel Tempiano maggiore, nel Boutourliniano, nell'Antitichissimo, nel Correttissimo e in altri de' Pucciani, in taluno de' quali invece del come dicesse leggesi com' se dicessi ec. Vocito messe, onde può esser venuto il voci t'ho messe, trovo nel Magnifico. — Tutti i miei codici indistintamente leggono come il Bartoliniano (al v. 36 del cap. medesimo) trovìam la porta, sicchè penserei che nelle future edizioni l'aperto, che veggo anche nelle più accreditate fra le ultime, non dovesse più vedersi. — Le ultime edizioni hanno pure ( al v. 145 e seg. del cap. 20.°) il Nulla ignoranza mai con tanta guerra Mi fe' desideroso ec. E veramente il desideroso vuol con tanta, avvertiva il Cesari, come il desiderando vuol cotanta. In tutti i codici avuti dinanzi io, è vero, trovo con tanta. Ma poichè in quasi tutti (tranne cioè il Magnifico e non so qual altro) trovo desiderando, parmi di dover ritener questo gerondio e il cotanta corrispondente, che meglio pur del con tanta corrisponde al quanta parémi allor ec. del v. 148.

Al perchè andate forte (v. 19 cap. 21.°; di tante edizioni antecedenti all'ultime, dopo i codici che già si son veduti, sicuramente non si tornerà più. Si resterà forse indecisi fra il parte andava o il parte andavan, lezioni qual d'uno qual d'altro de' codici da me veduti, e l'andavam d'un Estense proposto già dal Parenti, vedutosi nell'edizione del Bartoliniano, adottato dagli editori della Minerva e dal Borghi. — Il perchè lei che dì e notte fila (v. 25), soggetto di gran dispute grammaticali, è nel maggiore Tempiano, nel Magnifico e nell'Elegantissimo tra i Pucciani. Degli altri, che hanno tutti per colei, non mi rammento se alcuno abbia al v. seg. la variante del cod. Antaldi Non gli era tratta ec. Questa variante preme assai ai rigidi grammatici; a me nulla, poichè sarei forzato a rigettarla unitamente al per colei, non volendo far fare al poeta il più strano costrutto. — Il parve gridare ec. (v. 35), ch'è nel Bartoliniano e nel Florio, è pure in quasi tutti i codici da me veduti, ma non col tutto ad una che darebbe il gridare al monte, cosa che non so come si concilii co' versi 58, 59 e 60 che vi prego di ben considerare. — II Tempiano maggiore, il Bouturliniano, l'Antichissimo, l'Elegantissimo e il Magnifico fra i Pucciani, danno anch'essi, come altri codici, il tutto libero a mutar convento, che deve intendersi del volere, e che dal Cesari era preferito alla lezione ordinaria.

Nel codice Capilupi, dice il Cesari al v. 5 del cap. 22.°, invece del detto n'avean beati ec., trovasi detto n'avea applicato all' Angelo «ciò che rende chiaro un passo che altrimenti non lo è». Or lo stesso trovasi in tatti i codici più riguardevoli che ho avuto dinanzi. — Nel Bouturliniano e nell'Antichissimo fra' Pucciani (vi noto ciò come cosa di semplice curiosità) trovasi al v. 58 alcun che di simile alla lezione d'altro codice, «che, giusta la frase del Cesari, ci gitta al di là del Bosforo».

Tutti i miei codici (parlo sempre de' più degni d'essere consultati) danno al v. 48 del cap. 24.° Dìchiareranti ancor le cose vere, com'è nel Caetano, nel Bartoliniano, nell'edizione del Nidobeato, e nelle migliori fra le più recenti. — Tutti pur mi danno al v. 13: il Ben mille pasti e più ci portar oltre de' codici Vaticano, Chigiano, Bartoliniano ec., sicchè è ormai forza correggere, come avvisava il Cesari e ha già fatto il Costa, quell'erroneo ci portammo, con cui giustificavasi d'esempio antico, benchè unico, il portarsi dell'uso moderno.

Non so se porti il pregio ch'io noti, che al cap. 25.° v. 137, invece dell'abbrucia della più parte delle stampe e de' codici, trovo in parecchi di questi miei abbruscia (colla rima corrispondente rìcuscsia) onde forse l'abbrusa del Bartoliniano. Ben porta il pregio ch'io avverta come al v. 81 del cap. seguente, invece dell'E ajutan l'arsura vergognando, i più riguardevoli fra essi, tranne il Magnifico e il Nohile fra' Pucciani, danno E giunta o aggiunta o aggiunto all'arsura, ben diverso, parmi, dal dan giunta, cirè il Cesari diceva sapergli d'acquerello nel Bartoliniano. — Il ch'io ti cerno, che il Cesari trovava sì bello in quel codice al v. 115, invece del solito io ti scerno, è pure nel Tempiano minore e nel Magnifico fra' Pucciani. Negli altri è scritto più o men correttamente mo' scerno, che non credo ancor notato da alcun editore. — Del preso avea invece di presso avea, che cangerebbe affatto il concetto del v. 134, nulla in questi miei codici. — In quasi tutti invece al v. 66 del cap. 27.° il sole dicesi come in più Codici famosi già basso, che al Cesari parea men bello del già lasso comunemente adottato.

Siamo al famoso v. 15 del cap. 30.°, per cui si fecero già le matte risa alle spalle del povero Dionisi. Il rivestita carne alleluiando, ch'egli trovò non ben chiaro nel codice di F. Villani, si trovò poi chiarissimo nel Caetano, nel Bartoliniano e in molt'altri, e, se al Bigioli, al Foscolo, ec. seguitò a sembrare spurio e ridicolo, al Monti, al Cesari , al Costa , al Borghi, ad altri, parve legittimissimo. La sua legittimità è pur confermata dai due Tempiani e da varii Pucciani, fra i quali l'Antichissimo, ove l'alleluiando si legge più chiaro che negli altri. — Se i ragionamenti già fatti da varii al v. 100, e che trovate raccolti nell'ediz. della Minerva, vi persuadono che la destra coscia implichi contradizione, e che la detta, onde verrebbesi ad indicar la sinistra, e che trovatasi nel cod. Capilupi, nel Bartoliniano e in altri, fu adottata dagli edit. della Minerva, dal Costa, dal Borghi ec., sia la lezion vera, vi piacerà di sapere che trovasi anche nel Bouturliniano, e in due de' Pucciani più riguardevoli, l'Elegantissimo e il Nobile.

Sulla fede del cod. Caetano si è voluto da taluno al v. 29 del cap. 31.° leggere nella fronte dell'altre che si riferirebbe a donne, piuttosto che nella fronte degli altri che si riferisce a beni. Quasi tutti gli editori però han ritenuta questa lezione, e tutti i codici da me veduti la confermano. — La lezione Quali i fanciulli vergognando ec , che al v. 64 il Cesari sospettava dover essere in qualche testo, è difatti nella maggior parte di quelli che ho veduti. — Il Quali a veder de' fioretti del melo, che il Cesari, al v. 73 del cap. seguente, non trovò che nel Bartoliniano, è anch'esso in quasi tutti quelli che ho veduti, e fra essi nel Correttissimo. — In tutti sicuramente al v. 48 del cap. ultimo è l'attuia comune, sicchè non so dire quanto sia fondato il sospetto del Cesari che fosse scritto primitivamente abbuia. — I più al v. 74 han l'impietrato tinto del Bartoliniano, niente più ammissibile dell'in peccato tinto, che ancor si legge in quasi tutte le edizioni. Il Ternpiano maggiore, l'Antichissimo e l'Elegantissimo tra Puccìani, hanno in petrato, lezione confermata dal comento dell'Ottimo, come già osservò il Betti, e che dal Costa è stata adottata.

Se fra queste varianti avessi potuto permettermi digressioni (ecco un altro intermezzo divenuto necessario) credo che ne avrei fatto volientierissimo una subito dopo il v. 115, a cui mi fermai nel cap. 26.° Non rammentava che il Biagioli avea già detto che le prose di romanzi , di cui parla Dante al v. 118, lodando Arnaldo Daniello, non eran già «composizioni in parole sciolte, ma in versi di metro libero, e di genere epico o narrativo». Gli editori della Minerva, come ho veduto , gli contraddicono, allegando fra l'altre rose un periodetto di non so qual discorso del Tasso, il qual con varie autorità sostiene che gli antichi romanziì provenzali ec. si scrivevano in vera prosa. Non so se sappiate che il Raynouard, rendendo conto, un anno o due fa, nel Journal des Savans, del romanzo provenzale di Fortebraccio pubblicato a Berlino per cura del Bekher, è ritornato su questa questione. ed ha resa più che probabile l'opinion del Biagioli. Quel romanzo, come l'altro pur provenzale che s'intitola da Gherardo di Rossiglione, come molti fra i tanti scritti ncll'antica lingua del settentrione della Francia, e fra essi quello di Rou, è in metro libero, composto di parti monorime più o meno lunghe. Or queste secondo il Raynouard debbon essere le prose di romanzi di cui Dante favella. Così diceansi prose nel linguaggio ecclesiastico gl'inni o sequenze, che sciolte dalle regole della poesia latina terminavano ciascun verso di ciascuna strofa colle medesime consonanze. Così una pia leggenda di Gonzalo di Berceo, che credesi del secolo 13.°, è detta prosa nella prima delle strofe di cui si compone. Del resto a che avrebbero servito, dice il dotto con cui vi parlo, romanzi in prosa qual noi l'intendiamo? I romanzi erano cantati fra numerose adunanze al suono d'uno strumento di musica; e il canto, e l'accompagnamento musicale si addicono ai versi non alla prosa. D'altra parte frammenti di romanzi in prosa d'età sì remota come quella d'Arnaldo Daniello non si conoscono. E i romanzi di tal specie, che pur si hanno, d'età alquanto posteriore, non sono che induzioni o imitazioni, in cui si volle ringiovanire l'antica lingua di romanzi già scritti in versi.

Il Biagioli fu men felice (a quest'altra digressione mi conduce la lettera già citata del mio giovane amico) quando al v. 36 del cap. ultimo volle dar nuova interpretazioue al vendetta di Dio non teme suppe, derivando questa parola dal supus latino onde il soaple francese ec., di che vedete il suo comento o quello degli editori della Minerva. Non più felice per avventura sebben più ingegnoso fu il Biondi, cercando anch'egli interpretazion novclla, e derivando tal parola dal supparus, suppar, che nella bassa latinità significava sago militare, come potete vedere in uno de' suoi ragionamenti, che son nell'Arcadico, sopra alcuni luoghi della D. Commedia, o presso il Costa che adottò la sua interprefazione. Certo, come avverte il Parenti, scrivendo agli editori della Minerva, l'interpretazione di tanti, o contemporanei a Dante, o poco a lui posteriori (Piero suo figliuolo, il Comentatore che chiamiam l'Ottimo, Iac. della Lana, Ben. da Imola, il Boccaccio, il Buti ec.), che tutti ci attestano un costume si può dire contemporaneo, a cui Dante allude, non va rigettata così di leggierì. Il mio giovane amico, intanto, avvenutosi nel 3 cap. del 1.° lib. de' Saggi del Montaigne in queste parole: La fortune quelques années après les punit de même pain soupe, fu indotto a pensare che ciò che avvi in esse di proverbiale, e ciò che avvi pur di proverbiale nel verso allegato di Dante, vengano da una medesima origine, ch'ei proponsi «quando ne abbia tempo e pazienza» di ricercare, ma che fin d' ora crede non potersi trovare che «nella storia de' così detti Giudizii di Dio».

Senza la lettera dell'amico, io non avrei, per ora almeno, pensato mai al non teme suppe, benchè sì famoso. Pensandovi, sono andato, non so come, cercando ne' codici se rinvenissi qualche variante, parendomi quasi che al decoro della poesia dantesca una variante fosse necessaria. Ma l'egregio uomo, presso cui sì trovan ora (vi dirò poi a che fine) quasi tutti i codici da me veduti, mi ammoniva, che, se il non teme suppè ha per noi alcun che di basso, non lo avea probabilmente pe' contemporanei di Dante, anzi , poiche fu da questo poeta adoperato, non lo iivea sicuramente. Fu già detto d'Omero che mai non usò espressioni basse, per questa semplice ragione che a' suoi tempi ancur non era distinzione alcuna di basse e di nobili. E ciò, si è pure aggiunto (vedete il Villemain in una delle sue ultime lezioni) potrebbe dirsi di Dante; il che, a parlar schiettamente, mi sembra ancor meno vero che di quel poera primitivo. Verissimo ad ogni modo che a' tempi di Dante la distinzione fra le espressioni basse e le nobili non poteva esser la stessa che facciam noi. Verissimo che molte espressioni da lui usate, e che oggi chiameremmo basse, convengono mirabilmente alla poesia sdegnosa od ironica delle prime sue cautiche specialmente, o alle ingenue imagini, che per una singolarità degna d'osservazione s'incontrano più che altrove nella terza, di cui mi resta a mettervi innanzi le coserelle che andai notando.

Confermato primieramente da tutti i codici che ho veduti il Come dimandi a dar o semplicemente dar l'amato alloro (v. 15, cap. 1.°) invece del dimanda, che, dopo le osservazioni del Lombardi, del Parenti ec., ha perduto pregio presso quasi tutti gli editori, e a cui non varrà, penso, per riacquistarlo, l'autorità del Bartoliniano. — Non confermato da alcuno, mi spiace dirlo, il Com'a terra quïeto foco vivo (v. 141), che al Cesari e a tant'altri parve, ed è forse, l'ottima lezione. I due Tempiani, il Bouturliniano, l'Antichissimo e il Magnifico tra' Pucciani mi danno Com'a terra quïete in foco vivo, mentre altri mi danno come terra quïete. Il Correttissimo, l'Elegantissimo, il Nobile danno Com' matera quiete ec., ond' esce forse la lezione , vedutasi, credo, in qualche vecchia stampa Com' materia quïete ec. ec.

Del pueril quoto invece di coto ( v. 26, cap. 3.°) introdotto già nelle edizioni dopo quella degli Accademici, indi proscritto, nessun vestigio ne' codici da me veduti. — Solo in uno di essi, nell'Elegantissimo (al v. 88 del 15.° cap.), trovasi il piacere e trasmutar sembiante, sostituito per troppo visibile scorso di penna al tacere e trasmutar. — In tutti invece si trova (al v. 126), come pur trovasi nel Bartolininno, Perch'ei corrusca sì invece del corruscan, proposto dal Dionisi, difeso dal Torelli, dal Perazzini, dal Cesari, i quali trovan più bello applicare agli occhi ciò ch'altri applica al lume.

Il ch'ella seguio del Bartoliniano (cap. 6.° v. 2), invece del solito che la seguio, è pure del secondo Tempiano, del Correttissimo e dell'Elegantissimo fra' Pucciani; ciò che dee piacervi,se voi pur pensate col Cesari che tal lezione sia la migliore. — Il Cesari inclina a credere che il verso 66 debba leggersi, come in alcuni codici, Sì che 'l Nil caldo si sentì (o sentissi) del duolo. E a que' codici or è da aggiungersi il Pucciano, che soglio chiamare Magnifico. — Se nuovi codici bisognano per ottenere l'assoluzion de' gramatici al gli succeda del v. 114, posso citarvi tutti quelli che ho veduti. — Essi, meno il Magnifico, confermano (al v. 4 del cap. seguente) la vecchia lezione alla nota sua, a cui anche nelle edizioni più recenti e più accreditate, eccetto quella del Costa, è sostituito alla ruota.

Il tu del mondo, che leggesi in alcuni codici al v. 36 del cap. 8.° (simile al fu del ciel del 5.° della seconda Cantica), e che piaceva al Cesari più della lezion comune, è pur ne' miei codici più riguardevoli, tranne l'Elegantissimo. — In nessuno, m'incresce il dirlo, al v. 44, è la lezion del Daniello, trovata pure nel Bartoliniauo, e già adottata come la più plausibile da' più recenti editori. In nessuno pure, ch' io mi ricordi, è la lezione che il Dionisi trovò nel Laurenziano di F. Villani, e il Parenti in altro molto antico, onde prese occasione di vendicarla dagli scherni del Biagioli.

Al v. 107 del cap. 9.° io non credo che si possa esitare fra il cotanto affetto della Nidobeatina , e il con tanto affetto dell'ediz. degli Accademici. Per la prima lezione è fra i codici da me veduti l'Elegantissimo de' Pucciani; per l'altra tutti gli altri. — Al verso, che segue, valga per tutti a confermar la lezione del Bartoliniano e del Florio, Perchè al modo di su quel di giù torna, il Pucciano Correttissimo. — Valga pur, se bisogna, al v. 26 del cap. 13.° l'autorità di tutti insieme i codici da me veduti a confermare il divina natura, che anche gli Accademici trovarono in molti codici, benchè preferissero il divina sustanzia trovato in alcuni pochi.

«Taluno, scriveva il Cesari, all'arrisemi un cenno (che leggesi al v. 71 del cap. 15.°) sostituì arrosemi e sgraziatissimamente. V'è un codice che lo abbia?» Or pare ch'egli obliasse i codici Vaticano, Chigiano, Caetano e le antiche stampe onde il De Romanis fu mosso a sostituirlo all'arrisemi. Ai tre codici qui nominati posson ora aggiungersi il secondo Tempiano, il Bouturliniano, il Correttissimo e l'Elegantissimo fra i Pucciani. È notabile intanto che fra quelli che hanno l'arrisemi, oltre il Tempiano maggiore, sia il Pucciano Antichissimo, che non sembra il codice delle lezioni dirò cosi più delicate.

Nessuna discordanza fra' codici da me veduti sul Trenta fiate venne questo foco, ch' è il verso 38 del cap. 17.° — Pochissima o quasi nessuna inturno al poter armi, troppo più poetico del portar armi al v. 47. Questa seconda lezione non mi è data che dal minore Tempiano; l'altra dal Tempiano maggiore, dal Bouturliniano, e da tutti i Pucciani più riguardevoli, in ciò conformi al Bartoliniano. — Credo anch'io, e le ragioni del Parenti in ispecie, recate dagli editori della Minerva, debbon far credere a chiunque, che al v. 94 sia da leggersi Sovra la porta ch'al presente è carca. Mi piace però vedere che questa lezione, confermata dal Bartoliniano, lo sia pure da tutti i codici, che ho avuti fra le mani, benchè l'Elegantissimo dia per correzione sovra la poppa.

Variano questi miei codici al v. 66 del cap. 17.° Il Tempiano maggiore, per esempio, e il Bouturliniano, hanno come il Bartoliniano rossa la tempia; il Tempiano minore ha rotta, che pur sulla fede d'altri codici trovasi in più edizioni. — I tre codici nominati hanno pure al v. 93 Incredibili a quei che fien presente , invece del fia d'altri, ed anche del Bartoliniano; il qual presente dopo il fien potrebbe aver forza d'avverbio. — E i tre già detti, e tutti i più riguardevoli che ho veduti, danno al v. 95, cap. 18.° d' oro distinto ec.; nè credo che il dipinto di qualche edizione ricomparirà mai più.

Se nel cap. 19.° il vero significato dell'ultima parola del v. 57 è, come il Cesasi dice, « molto di là da quello che a lui apparisce», bisogna allora attenersi alla lezione de' codici Vaticano e Chigiano Molto di là da quel che l'è (o li è) parvente. La qual lezione è pur quella de' due Tempiani, del Bouturliniano, e posso anche aggiugnere, nonostante qualche varietà ortografica, dell'Antichissimo e del Correttissimo fra' Pucciani. — Se la lezione Da dubitar sarebbe e meraviglia ( v. 84 ) non vi pare irragionevole, come non parve al Cesari, e ne bramate mallevadori più ch'ei non ne avesse, eccovi, oltre il codice ch'egli cita, anche il maggiore Tempiano, e coi due Pucciani nominati pocanzi anche l'Elegantissimo. — Il Cesari non trovava neppur irragionevole al v. 141 Il Male aggiustò il conio di Vinegia, poichè avvertì semplicemente che un codice mantovano ed altri leggono ha visto. Ora a questi altri, fra cui verosimilmente egli annoverava il Bartoliniano, si aggiungono tutti quelli che ho avuto dinanzi, nè poteva essere altrimenti. Che l'aggiustò fu imaginato in grazia d'un supposto avvistò, trasformazione d'un à visto male scritto; trasformazione che mai nou sarebbe avvenuta in faccia all'Antichissimo Pucciano, il qual toglie ogni dubbio leggendo Che mal ha viso 'l cogno di Vinegia.

Flailli indistintamente al v. 14 del cap. 20.° in questi miei codici. Lecitissimo nonpertanto il ritener flavilli ch'è in altri. Non più lecito, sembrami, il parlar di favilli che pure è in qualche recente e accreditata edizione. — Per l'aguglia o per l'aquila salissi è al v. 26 lezion più che dubbia; e ciò in grazia di quel per lo collo che vien dopo. Il Bartoliniano ha dell'aquila, come il Capilupi citato dal Cesari. Fra' miei il Tempiano maggiore, il Bouturliniano, l'Antichissimo e 1'Elegantissimo de' Pucciani hanno per l'aguglia. Ma dell'aguglia han pure il Tempianu minore, il Pucciano Magnifico e il Correttissimo, che val per molti. — E di tutti i lor gradi è la lezion più comune de' miei codici al v. 36. Ma il Boutnrliniano, il Pucciano Elegantissimo, e credo anche qualch'altro, hanno e di tutto lor grado come il Capilupi.

Del pavido invece di pallido (v. 5, cap. 22.°) imaginito dal Cesari, con intendimento, per vero dire, assai poetico, nessun vestigio ne' miei codici. — Il pileggio invece di pareggio (v. 67 del cap. 23.°), non dispiaciuto ad alcuni de' più recenti editori, è nel Tempiano minore e nel Pucciano Elegantissimo. — Il vider coperto (che applicherebbesi a prato) anzichè coperti d'ombre gli occhi miei, detto dal Cesari (al v. 81 del cap. medesimo) lezion ridicola, è in ambidue i Tempiani e nel Pucciano Antichissimo come in altri codici famosi, il che qui noto perchè pensiate se potesse anch'essere lezion non ridicola. — Lezion ragionevole pare a me come al Cesari, e per le ragioni appunto ch'egli adduce, quella che al v. 17 del cap. seguente prepone a ricchezza il della anzichè il dalla. E questa lezione, già adottata dal Costa, la trovo in tutti i miei codici, tranne il Bouturliniano. — Il poco color vivo, che dà il Bartoliniano al v. 27 del cap. medesimo, e ch'io non so dire se al Cesari piacesse più del troppo degli altri codici, ma che al Costa parve sciogliere ogni difficoltà d'interpretazione, è qui nel maggiore Tempiano.

Il Tempiano minore, il Bouturliniano, l'Antichissimo, il Magnifico, e il Correttissimo fra' Pucciani, al v. 29 del cap. 25.°, ove e da antichi e da recenti editori si amò leggere larghezza , danno , come già lessero gli Accademici, e trovasi pure nel Bartoliniano, allegrezza. — Ambidue i Tempiani e quasi tutti gli altri che ho veduti, al v. 27 del cap. 26.°, ci ripetono la comun lezione Tal vero allo 'ntelletto mio sterne. Taluni de' più recenti editori hanno preferito il discerne della Nidobeatina, ch'è il medesimo che il scerne d'altre edizioni. Ma guardando al gran numero di codici, che qui concordan co' miei nel darci la lezione che ho già detta comune, e guardando pure alla sua poetica bellezza, è forza convenir col Parenti che sia dessa la lezion vera, e l'altre due non ne sieno per conseguenza che un'alterazione. — Poichè, dopo quel che disse il Lampredi in proposito di non so che codice napoletano da lui veduto, il decidere come debba leggersi il principio del v. 134 sembra rimesso agli ebraizzanti, non lascierò di notare come sul gusto di quel codice napoletano il Tempiano minore scriva ./., e il Pucciano Elegantissimo I s'appellava in terra ec., mentre gli altri leggono o traducono Un s'appell.va con quel che segue.

Tutti i codici da me veduti, meno il Magnifico Pucciano, confermano al v. 144 del cap. 27.° il Ruggeran sì questi cerchi superni che ancor non si ha per sicuro. Il Magnifico da rugghieran, che non so se si trovi in altri codici, e che può sembrare di bell'etfetto. Del gireran del Bartoliniano non trovo riscontri. — Al v. 100 (l'obliava) il Magnifico, il Nobile, l'Elegantissimo e il Correttissimo de' Pucciani, e con essi il Frullani, leggono le parti sue vicissime ed eccelse, come pur leggono altri codici indicati dagli Accademici, come lesse il Dionisi in quello di F. Villani, e come legge il testo dell'Ottimo che spiega vicissime come lo spiega il Costa od il Betti, da cui il Costa fu animato ad adottarlo.

Tutte le varianti del v. 23 cap. 28.°, trovate già dal Lombardi e da altri in molti codici diversi, si trovano in questi miei. La variante più volentieri accolta Alo cinger la luce ec. si trova nel Tempiano maggiore e nel Pucciano Antichissimo. — Quant'è dal punto che 'l zenit inibra (v. 4 cap. 29.°) è in ambidue i Tempiani e nel Magnifico oltre l'Antichissimo de' Pucciani. Quant'è dal punto che li tiene in libra è nel Correttissimo e negli altri Pucciani più notabili, ai quali s'aggiunge il Bouturliniano. — Non voglio dir nulla del Senza distensïone in esordire, che il Cesari, al v. 30 del cap. medesimo, trovava pien d'efficacia nel Bartoliniano. I miei danno tutti Senza distinzïone in esordire, o Senza distinzïon ne lo esordire. — Cima nel mondo leggono i più di essi ai vv. 32-33. Cima del mondo leggono l'Antichissimo e il Magnifico de' Pucciani, come legge il Bartoliniano, e al Cesari parerà meglio: l'Elegantissimo in questo luogo è equivoco.

Quasi concordi i codici da me veduti intorno alla lezione del v. 62 cap. 30.° Il Tempiano maggiore, l'Antichissimo, il Correttissimo, il Magnifico, il Nobile fra' Pucciani stanno pel Fluido di fulgori, ch'è nel Bartoliniano. Pochi altri, fra' quali il Frullani, danno il Fulvido, ch'è nella Nidobeatina, e nelle moderne edizioni più accreditate, compresa quella del Costa, il qual lo crede col Betti lezion migliore. — Il Quant'è nell'erbe e ne' fioretti opimo (v. 111), che leggesi nel Bartoliniano, nol trovo che nel Bouturliniano. Negli altri, eccetto il Pucciano Antichissimo, leggo il Quant'è nel verde e ne'fioretti di tant' altri codici, e de le edizioni comuni. Nell'Antichissimo leggo Quand'è nel verde ec., che trovasi pure in un codice Estense, e che per buone ragioni piacque al Parenti ed al Cesari e fu adottato dal Costa.

La tanta plenitudine volante, che piacque al Lombardi invece di moltitudine (v. 10 cap. 31.°), eccovela nel Tempiano maggiore, nel Bouturliniano, nel Magnifico e nel Correttissimo de' Pucciani. — La tua munificenza (v. 88) , letta dal Daniello in alcuni codici invece di magnificenza, e riproposta dal Parenti, sulla fede, credo , d'un codice Estense, non la trovo in alcuno di questi miei. — In tutti invece è il t'acconcerà lo sguardo (v. 98 ), che al Lombardi, al Biagioli ec. piacque meno del t'accenderà, ma che pur trovasi in tanti codici pregiati. — Della variante sì incappelli o l'incappelli, proposta da un erudito, e riproposta dal Costa nell'ultimo paragrafo dell'appendice al suo comento, ove parla del v. 72 del cap. 32.°, nulla in questi miei rodici. — L'Intra sè qui più o meno eccellente (v. 60 del cap. medesimo), dato dai codici Vaticano, Chigiano, Corsiniano e anche dal Bartoliniano, è qui chiarissimo nel Pucciano Magnifico, e un po' men chiaro, ma credo non dubbio , nell'Antichissimo.

Un paragrafo della lettera, già più volte ricordata, del mio giovane amico avrebbe voluto ch'io mi fermassi più sopra, cioè al v. 57 del cap. 27.°, per cercare se e quanto i miei codici variino fra loro intorno a quel verso. Se non che, in forza appunto di quel paragrafo, che vi trascrivo quasi alla lettera, la ricerca incominciata col maggiore Tempiano fu da me tosto troncata, che nè altro mi parve di poter trovare in altri codici, nè, trovatolo, di doverne tener conto.

Vi ricordate, dice l'amico, d'aver letto nell'ultimo libro del Foscolo le gran questioni intorno all'ultimo verso di quel terzetto In veste di pastor lupi rapaci Si veggon di quassù per tutti i paschi: O difesa di Dio perchè pur giaci! e come gli uni, anzichè difesa, voglian giudicio, gli altri sulla fede, credo, del Bartoliniano, parteggino per vendetta ec.? Io per me penso che Dante sia per la vecchia lezione, e s'interpreti di per sè quando dice più sotto: Ma l'alta Providenzia che con Scipio Difese Roma e la gloria del mondo Soccorrà tosto sì com'io concipio; discorso tutto pieno d'idee di soccorso e d'aiuto, non di giudicio o di vendetta, ec. Io non so vedere in tutto quel primo terzetto che una continuata figura; in que' lupi, paschi, pastori, ec., che altrettanti termini proprii, che specialmente si adattano alla greggia simbolica del poeta; in quel giaci che un altro termine proprio, che si accorda perfettamente col difesa. Nel supposto d'una sola figura, questa difesa, che giace, non può essere che un cane allegorico (difesa chiamano qui i pastori il cane custode del gregge), e ci riporta a mio credere al veltro misterioso della prima cantica, Scipion novello, messia di forza e di libertà, allor futura speranza d'Italia, or presente riparatore quantunque lento, ond'è che il poeta lo punge collo stimolo dell'emulazione e della rampogna.

Questo simbolo costante di cane, egli aggiunge, mi par che non sia senza allusione a qualche nome, che o la modestia che vuoi serbarsi nella lode, o l'arcano necessario ad una grand'opera d'emancipazione, vietano al poeta di proferire; nè altra allusione, guardando pure a' casi e all'animo del poeta, riesce più verosimile che al nome del grande Scaligero. E qui egli prosegue, rammentando i vincoli che stringevano il poeta a quel grande; vincoli del ghibellino col ghibellino, che giunto alfine agli anni della maturità forse gli avea rivelati i suoi alti disegni, sicchè quello che a principio fu vaticinio sul capo d'un giovinetto era alfin divenuto aspettazione impaziente; vincoli dell'esule coll'ospite e coll'amico, per cui potè sfogando la sublime sua ira assicurarsi invece della fortuna la gloria, e a cui volle di questa gloria far parte. Chè il poeta, al dir suo, come fu grande nell'ira, fu grande nella riconoscenza. «La carità della natura come quella degli uomini ha ne' suoi versi un inno ospitale; la bella pineta di Ravenna ha da lui il suo canto come l'infelice figlia di Guido ec. Egli non batte ad una porta che non senta il bisogno di raccontarvelo ec. Come avrebbe obliato l'amico più grande, il primo amico delle sue sventure, dopo aver eternato il nome di tali in cui appena s'imbattè ramingando? ec. ec.». Quindi, alludendo al noto libro del Veltro Allegorico, si duole vivamente, che a queste considerazioni non siasi avuto riguardo; che «una voce siasi alzata nel silenzio di due sepolcri, contendendo a un uomo illustre il premio della virtù, ad un altro il raro merito della riconoscenza ec.» e ci conferma, dirò così, per sentimento nella sentenza, in cui l'autore degli scritti antologici più volte ricordati, tornando anch'egli sulla questione di quel Veltro, ci avea confermati con rigorosi ragionamenti dedotti dalla storia.

Mi resta a dir due parole sui due codici ond' ha occasion questa lettera, e specialmente sul secondo che ha le giunte che già vi accennai. Del primo anzi potrei anche non dirvi altro, poichè non credo che a compimento della sua descrizione importi molto il notare ciò che per ozio fu scritto ne' suoi riguardi, epigrammi, sonetti, sentenze murali, coserelle varie, fra cui nulla di relativo a Dante se non il Jura Monarchiae col resto dell'epitaffio che già sapete; e nulla neppur di curioso se non forse un'epistola del Salvatore a Carlomagno, che chi la portasse adosso ec., ciò che voi non v'aspettavi in un codice de' più solenni del poema di Dante. Ne' riguardi del secondo voi trovate, oltre l'epitaffio già detto, un ricordo sul dì della morte del poeta e sulla sua sepoltura, poi ivi pure coserelle varie, fra le quali la più notabile, ch' io mi rammenti, è un epigramma in morte di Braccio da Montone. Le giunte sono di due specie, le une poetiche, preposte al poema sotto il titolo Brevi Raccoglimenti di ciascuna delle tre Cantiche dalla mano stessa che di queste fece copia, le altre prosastiche, parte scritte anch'esse dalla mano medesima, e son le rubriche o brevi sommarii di ciascun capitolo, le altre da mano posteriore, e son postille a' primi capitoli della prima Cantica fino al 13.° inclusive.

I tre raccoglimenti, sotto il nome di capitoli, si trovan pure in altri codici, or tutti e tre come nel Laurenziano di F. Villani, or due almeno, come, se ben mi rammento, nel Buoturliniano, in alcuni Pucciani cartacei , ec. ec. Uno è quello che nel codice del Villani, ma non di mano del Villani, per quel che sembra al buon Manuzzi andato alla Laurenziana a vedere il codice per me, ed anche in uno Pucciano, è attribuito a Piero figliuolo di Dante. Un altro è quello che pur in quel codice (ed anche nel Pucciauo detto dianzi) è attribuito a Busone da Gubbio. Un altro quello, che in un codice della Riccardiana «scritto per mano di Paolo di Duccio Tosi da Pisa» è attribuito a Gio. Boccaccio; ciò che fu già notato dal Manni nelle Illustrazioni al Decamerone del Boccaccio medesimo, poi dal Baldelli nella prefazione alle Rime di lui, ove inserì quel capitolo, inseritovi poi anche dal Villarosa nella sua Raccolta di Poeti Antichi. Per una raccolta novella forse può giovare il conoscere qualche codice di più, e se fra i codici da me veduti il Bouturliniano ha veramente (che, essendo lontano il sig. Sloane, non posso accertarmene) alcuno de' ricoglimenti, com' ha qualcuno de' noti capitoli che si attribuiscono a Dante, esso pe' riscontri sarà il più utile. Del resto tutto quello che si può dir di meglio in lode de' tre ricoglimenti è che son dettati nella lingua del trecento.

E questa è pure la miglior lode che possa darsi alle rubriche o sommarietti che pur vi accennai. Delle chiose, benchè poche, può dirsi qualche cosa di più. Le une relative alle cose allegorìche del poema non differiscono, per vero dire, dalle chiose antiche più cognite della medesima specie, che ben potrebbero ad ogni modo essere le più vere. Altre, poste a spiegazione d'alcune più o men singolari parole, non hanno neppur esse nulla di singolare, nel che però è forse un altro carattere di verità. Altre finalmente di genere storico, parmi, che in parte almeno valgan quelle che nella mia Lettera settima già vi recai d'un codice miscellaneo, specie di Fiorità simile a quella d'Armannino e all'altra di Guido da Pisa, nella quale mi spiace che il Gamba non abbia voluto guardare che ad un compendio dell'Eneide (già pubblicato fin dal quattrocento, come mi avvisa il Manuzzi, poi ripubblicato recentemente per cura del Muzzi) ed ove chi sa quante cose si contengono ed auree per lingua , e curiosissime ad altri riguardi.

Voi vi rammenterete di quel che a' versi 110 e segg. del cap. 12.° (E quell'altro ch'è biondo È Obizzo da Esti il qual per vero Fu spento dal figliastro su nel mondo) dicono il Venturi e i successivi comentatori: «Obizzo da Este marchese di Ferrara ec. fu soffocato da un suo figliuolo, detto dal poeta per l'atto inumano figliastro ec.». Coi quali comentatori concorda pur l'Ottimo, che sol qualcuno tra gli ultimi può aver veduto. «Con un primaccio fu (Obizzo) soffogato da Azzo suo figliuolo ec. Chiamollo (il poeta) figliastro, perocchè figliuolo non può diliberato uccidere il padre ec. ec.». Se non che il poeta ha detto per vero, il che sembra significare, che fra due opinioni, l'una delle quali attribuiva la morte d'Obizzo ad un figliuolo, l'altra ad un figliastro, egli era per la seconda. Or questa congettura eccola divenir certezza per la chiosa del codice di cui vi parlo. «Obizo fu il marchese Obizo da Esti, il quale si dice che fu morto dal marchese Azzo ch'ello teneva per suo figliuolo; ma dicesi che la marchesana fece fallo con un famiglio del marito, e ch'ella s'ingravidò di lui e nacque questo Azzo ec.».

Bellissima per verità storica non meno che per dicitura è la chiosa che fa l'Ottimo a' versi 119 e segg. del cap. 13.° E l'altro, a cui pareva tardar troppo, Gridava: Lano sì non furo accorte Le gambe tue alla giostra del Toppo. Se i moderni comentatori l'avessero conosciuta non avrebbero avuto a sudare per correggere col comento del Vellutello un passo del cap. 117 del 7.° libro di Gio. Villani, che a que' versi pur serve di chiosa. Se non che alla chiosa presa dall'Ottimo manca una particolarità, che fa meglio intendere la disperata risoluzione di Lano, e che troverete in questa del mio codice. «Lano fu uno donzello di Siena, il quale fu dissipatore d'ogni suo bene , e cosi desiderava che facesse ogni suo amico, e ingegnavasi d' indurvelo, e 'ndussevene, e fu morto alla sconfitta della Pieve al Toppo ec.».

Se i moderni comentatori parimenti avesser letto le belle chiose dell'Ottimo all'ultimo verso del capitolo già indicato Io fei giubbetto a me delle mie case, avrebbero potuto dire più che non disse il Laneo e chi fece la postilla alle postille del codice Casinese, e congetturar la ragione per cui il poeta non nomina chi fece contro sè stesso l'atto violento ch'ei descrive. Nella chiosa del mio codice trovasi qualche particolarità non notata dall'Ottimo. «Questi, che fè giubbetto a sè delle sue case, fu uno giudice fiorentino, il quale ebbe nome Lotto (Lotto degli Agli) e, per dolore d' una falsa sentenza che diede, si s'appiccò colla sua cintura d' argento in casa sua. Secondo un'altra opinione (questa per l'Ottimo è la più probabile) dice che questi, che fece a sè giuhetto delle sue case, fosse l'uno de' Mozzi ec.».

Ma ho già prolungato questa lettera oltre ogni limite di discrezione. Io m'era proposto di non darvi che 'l fiore di quel che avea raccolto dai due codici Tempiani e dagli altri veduti in grazia loro, e forse vi ho dato anche troppe fronde. Altro fiore intanto resta a raccogliersi da essi, ch'io ho trascurato o non saputo vedere, di che sarei ancor più dolente, se non sapessi che eletti ingegni si radunano ogni settimana coll'amico in cui mano son ora que' codici, per far meglio ch'io non ho fatto, e forse per darci un testo del gran poema, che lasci pochi desideri anche a' lettori simili a voi.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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