Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera prima

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Frammenti - Aneddoti - De Rossi come Cellini


 

Farò, se vi contentate, un viaggio e due servigi. Ragguagliandovi, come vi ho promesso, de' codici del nostro marchese Tempi (uomo benemerito, il cui nome sembra accrescere il loro pregio) ne ragguaglierò anche il pubblico, stampando le mie lettere nell'Antologia. Quando vi scrissi la prima volta di questi codici sulla relazione d'un gran ricercatore di simili rarità, il qual proponevasi d'illustrarli, non sapeva ancor bene se al pubblico potrebbe piacer molto di conoscerli. Ora, dopo averli veduti, penso che debba piacergli moltissimo, né credo che voi ne penserete altrimenti, a meno che non crediate ben raro in Italia l'amore delle cose italiane.

Comincio dal codice, che per caso m'è venuto alle mani il primo, e che voi sicuramente non vorreste che per mia scelta fosse fatto rimanere secondo. È un codice cartaceo in foglio ordinario di 460 pagine, il quale ha scritto in costa: Frammenti di storie fiorentine di Benedetto Varchi; ma contiene pur altro che il titolo non promette. Le prime cose, che vi s'incontrano, e che dan ragione di questo titolo, sono la dedica delle storie indicate a Cosimo De Medici, il loro proemio e il frammento del primo libro, di mano posteriore forse d'un secolo al Varchi, e quali pressapoco si leggono nelle stampe. Indi, frapposte alcune carte bianche, ma pur numerate da chi pensò così di coordinare le diverse parti del codice, ognuna delle quali avea come si vede una speciale numerazione, vengono molt'altri frammenti di mano che sembra un po' più antica dell'altra, e tutti indubitatamente d'un medesimo autore, coi quali si giugne ad un terzo circa del codice di cui vi parlo.

Alcuni di questi frammenti (copiati probabilissimamente dagli autografi o da apografi lor similissimi, come può argomentarsi da varie aggiunte marginali e da altro) appartengono ad una storia, che si estende per lo meno a tutto il tempo de' pontificati di Clemente VII, Paolo III, Giulio III, Marcello II e Paolo IV; gli altri sono forse ricordi per servire alla composizione di tale storia o d'altre più brevi, a cui l'autore s'apparecchiava. In qualcuno di essi infatti ei si riferisce alla sua storia generale, o già tutta composta o tutta almeno abbozzata; ciò che indica il disegno se non l'attual composizione di storie particolari.

Quest'autore, che mai non si nomina, si dà però a conoscere così bene in questi frammenti, che il nominarlo vi riesce facilissimo. Poiché, lasciando stare gl'indizi meno evidenti, ei fa intendere chiaramente d'aver ottenuto assai giovane il vescovado di Pavia, poi d'esserne stato privato e tenuto prigione due anni in Castel Santangiolo, indi restituito in quel vescovado e fatto in seguito governatore di Roma, e alfine, dopo varie escursioni a diverse corti e in ispecie a quella di Francia, d'essersi rifugiato in Toscana, ove si comperò la villa del Barone sopr'a Prato (villa più che reale di Baccio Valori, come, se ben mi ricordo, la chiama il Varchi, narrando un congresso che vi tennero i fuorusciti nel 1536) e oggi posseduta dal marchese Tempi. A questi indizi voi già siete certo ch'egli è quel monsignore Giangirolamo De Rossi de' marchesi di Sansecondo, cognato dell'Alessandro Vitelli, che servì sì bene i Medici contro Firenze; equivoco ambasciadore di Paolo III a' Fiorentini dopo la morte del duca Alessandro; parente e favorito del duca Cosimo, a nome del quale commise al Varchi (v. la dedica già mentovata) di scrivere le storie fiorentine, non pensando forse in quel tempo a prendere egli medesimo un posto fra gli storici italiani.

Ciò dico al vedere, come in un luogo de' frammenti ei si duole d'aver cominciato quasi vecchio (ritiratosi finalmente, giusta le sue frasi, dai negozi e dalle ambizioni) a scrivere le cose del suo tempo. L'aver però cominciato sì tardi non pare che gl'impedisse di scriver molto, benché forse gì'impedì di scrivere più accuratamente. Ch'egli, per uomo d'ambizioni e di negozi, fu pur cultore assiduo delle lettere, e quindi non ignaro dell'eleganze, che fanno belle le scritture. Né alla scuola del Bembo o del Guidiccioni, da cui fu animato a compor rime (molte delle quali sparse nelle raccolte del suo tempo furono poi ristampate unite in Bologna, e molte ancora inedite, già possedute dallo Zeno, si trovano credo nella Marciana di Venezia) poteva apprendere il disprezzo di ciò che richiedesi egualmente alla bellezza della prosa come della poesia. Né poteva apprenderlo da' Latini, de' quali fu assai studioso, e nella cui lingua dettò molti versi, che non so ove si trovino (l'Affò ne' suoi Parmigiani illustri ne parla sulla fede d'un Carrari, che gli è pur mallevadore d'altre opere da lui non vedute) ma di cui ho buon saggio in alcuni esametri per una lapide da mettersi a Portoferraio nuovamente fortificato dal duca Cosimo, di che trattasi in uno de' frammenti. E da un altro di questi apparisce ch'ei badò molto, o almeno quanto gli fu possibile, a' precetti di Cicerone intorno all'arte del dire, applicandoli all'uopo (giacché nel frammento parlasi delle innovazioni di vari nostri poeti e prosatori) ad ogni specie di composizioni italiane. Però se i frammenti sono meno che eleganti, mi giova attribuirlo piuttosto alla fretta che all'imperizia dello scrittore, il qual forse in altre opere compite, che di lui si citano, mostrò meglio come lo studio delle lettere gli fosse stato profittevole.

Quel poco infatti eh'io ho letto d'una sua vita di Giovanni De Medici (in un bel manoscritto della Riccardiana, fatto sicuramente sotto gli occhi dell'autore, poiché la sottoscrizione della dedica è di sua mano) mi è sembrato di stile abbastanza colto. Delle molte vite d'uomini illustri, che, stando agli autori di biografie e di storie letterarie, pare ch'ei componesse, questa è la sola, che fin qui ci fosse almen nota di nome. Pure dalla sua dedica (al duca Cosimo) poteva sapersi anche il nome d'un'altra antecedentemente composta, quella del re Giovanni d'Aragona. Ma l'Affò, che non vide altre cose inedite dell'autore che i suoi Dialoghi politici a Don Ferrante Gonzaga, e credo i suoi Discorsi sulle medaglie fra i codici ottoboniani della Vaticana, e nominò la vita di Giovanni De Medici sulla fede dell'Ammirato, ignorando ove esistesse, non poteva nominar l'altra che ho detto; e molto meno il potevano quelli che poi scrissero compendiando l'Affò, tra i quali è il Tiraboschi. Forse, guardando ben per minuto i frammenti del codice del march. Tempi, si riuscirebbe a nominare con certa probabilità qualch'altra delle vite indicate. Ma io non mi ci voglio arrischiare, bastandomi per ora di far conoscere i frammenti medesimi, ed in ispecie quelli appartenenti alla storia generale, ignota all'Affò e agli altri che scrissero del De Rossi, ma della cui esistenza posso tanto men dubitare, che questo dotto bibliotecario della Magliabechiana m'assicura d'averne più anni fa veduta copia presso un signor di Firenze.

Tale storia, di cui non lesse che il cominciamento, gli sembrò, in quella parte, già s'intende, fatta per contrapporsi alla storia del Guicciardini. E a me pure ne diede qualche sospetto un passo curiosissimo de' frammenti, ove narransi del famoso congresso di Clemente VII e Francesco I a Marsiglia cose da quello storico non narrate, ma ch'io, dice il De Rossi, non ho voluto tacere, come non ne tacerò alcun'altra che sia d'importanza "non essendo io parziale d'alcun principe, ma professor del vero e libero dell'animo" di che m'è testimonio, egli aggiunge, tutta la vita mia. La sua vita infatti fu agitata da passioni diverse, ma tali che ordinariamente fanno l'animo e il linguaggio piuttosto indiscreto che servile. Che se le ambizioni, da cui confessa egli medesimo di non essersi tenuto lontano, potevano deviarlo dalla professione del vero, legandolo a chi le avesse sodisfatte, la fortuna provvide che ciò non avvenisse. Ed io ho pur voluto, egli dice in un luogo, scrivere le ingratitudini de' principi verso di me "acciò si conosca che niuna passion m'astringe né a biasimar né a lodar alcuno se non il mero stimolo della verità, trapassando 1'ozio della vita con questa e con altre fatiche negli studi, come l'opere mie faranno fede."

Nulla, a quel che sembra, gli sta più a core che il titolo d'imparziale. Quindi non lascia occasione di farci intendere ch'ei lo desidera e crede di meritarselo. Clemente, al dir suo, acciecato dall’odio contro Cesare, avea nel congresso, che pocanzi accennai, consigliato al re Francesco di chiamare, come poi fece, il Turco ne' nostri mari. A sì funesto consiglio (le prove del quale fortunatamente lasciano luogo a qualche dubbiezza) furono ben contrarie le pie e coraggiose esortazioni del cardinal Cervini, poi Marcello II, nelle cui lodi, scrive il De Rossi, io entro assai volentieri "per soccorrere alla brevità del papato suo. che non ebbe vita più lunga di 22 giorni , meritando così la vita e valor suo, ancorché a me fosse continuamente contrario nella corte romana in ogni mio desiderio".

Se l'imparzialità, di cui egli fa professione, ci abbia fruttate nella sua storia molte novità, io non saprei indovinarlo. Ma dovrebbe pur essere di qualche utile o di qualche diletto il poter trarre da questa sua storia, che non rimarrà, spero, sempre occulta, o da questi frammenti se verranno all'uopo consultati, nuova conferma ai fatti che si narrano da altri storici reputati veraci. Così io leggendo i frammenti che riguardano la guerra in cui perì la repubblica di Siena, e quelli particolarmente in cui sono poste a confronto la virtù e la fortuna di Piero Strozzi e del marchese di Marignano, mi son compiaciuto di vedere che il De Rossi, l'uomo di Cosimo, pel quale il Marignano vinse, rende testimonianza alle parole del Segni più affezionato sicuramente al perditore che al vincitore. E già in altro frammento quasi scambiai il De Rossi col Segni medesimo o col Varchi, vedendolo lodare con tanto calore Palla Rucellai per l’animosa risposta, data come sapete nel consiglio de' 48, e contrapporlo a Francesco Guicciardini, a Matteo Strozzi, a Ruberto Acciaiuoli e agli altri, com'egli dice, tenuti i più savi della città, i quali "pensarono scioccamente che un doge di Firenze, coll'armi in mano, e col favore della fazione imperiale, ordinariamente nemica a Firenze libera, reputata sempre guelfa, dovesse vivere appunto come si vive in Venezia"; il quale inganno costò loro assai caro, "essendo peggio trattati in vita e in morte che Palla, acciò si conoscesse che le azioni virtuose debbono operarsi senza alcuna paura, ec. ec. ".

E questa breve citazione voglio che vi sia per saggio così della libertà d'animo dell'autore, come di certo acume che gli dà la pratica delle cose. Del resto egli non è l'uomo delle riflessioni peregrine e nemmeno delle riflessioni frequenti. È l'uomo de' molti ragguagli e delle molte particolarità, che l'indole sua, i suoi offici, le sue aderenze lo aiutarono a raccogliere; ond'è che se la maggior importanza delle storie sta nel mostrarci la vera generazione de' fatti, e questa si rende tanto più chiara quanto meglio si conoscono le particolarità de' fatti medesimi, la storia ch'egli ci ha lasciata deve pur essere importantissima.

Ne' frammenti, che non appartengono a questa storia, egli, come potete imaginarvi, è l'uomo degli aneddoti. E in quelli stessi, che appartengono alla storia, ei racconta sovente al modo d'uno scrittore di memorie private, il qual sa bene che gli aneddoti sono il lor condimento. Se parla, a cagion d'esempio, del congresso di Clemente e Francesco a Marsiglia, il cui resultato "non si è mai potuto sapere se non per conietture ed indizii, avendo essi tra loro duoi solamente scritta di mano propria tutta la capitolazione, che mai per alcuno si vide, come cose che per avventura non erano degne d'un papa e d'un cristiano" vi narra per minuto la successiva malattia di Clemente, e i discorsi che allora gli uscirono di bocca, quai "me li riferì, egli dice, maestro Matteo Da Corte suo medico che era continuo a quell'infirmità ec. ec.". S'egli vi parla degli ultimi anni e della morte di Carlo V, vi racconta come da un amico il qual dimorava in Francia "letteratissimo nel vero ma fuoruscito del duca di Firenze" il nome del quale tace "per buon rispetto" e che si crederebbe l'Alamanni se non fosse morto nel 56, fu richiesto di tutte le orazioni fatte in Italia in lode di quel monarca, le quali avendogli egli mandate, n'ebbe una lunga lettera, ch'ei riporta, e si potrebbe collocare in una bella raccolta di filippiche italiane.

Gli aneddoti propriamente detti sono in buon numero, e quasi tutti di qualche importanza per la storia delle idee o dei costumi. Io ho serbato memoria di questi: detto del duca Cosimo intorno al modo che teneva Don Ferrante Gonzaga per fornire il castello di Milano d'uomini e di munizioni senza spesa del suo signore; — il dottor Rosa spagnuolo familiare del De Rossi e gran giuocatore di scacchi; — ottanta spiritate d'un monastero di Roma al tempo di Giulio terzo; — conversazione del De Rossi dinanzi a Caterina de' Medici col conte Gio. Francesco della Mirandola, specie di manicheo ch'ei chiama "luterano e peggio" e con Piero Strozzi ch'ei ci dipinge come un deciso epicureo; — singolari servigi che rendeva in Roma un suo servitore da Reggio; — singolari conforti del cardinal teatino, che fu poi Paolo IV, a Giulio III agonizzante; — singolari ispirazioni di Paolo medesimo e sue singolari determinazioni; — ingordi guadagni e perdite proporzionate di Paolo Giovio; — il duca Cosimo, che si fida de' Fiorentini che lo odiano, perché sa che si odiano ancor più fra di loro; — risposta d'un gentiluomo fiorentino ad un galantuomo lombardo (probabilmente il De Rossi medesimo) che chiama i Fiorentini flagellati come meritano; — risposta del marchese di Marignano "tassato in Firenze perché parlava così meramente milanese"; — risposta de' Veneziani e medaglia de' Romani a Paolo IV, quando mandò fuori la proibizione de' libri; — risposta d'un gentiluomo a questa domanda: perché Carlo V tenesse occulto sino alla morte un suo figlio naturale avuto in Fiandra, non essendosi vergognato di dichiarare per figlia madama Margherita; — affitto d'uomini, che alcuni mercanti genovesi facevano alla lor repubblica, la quale non trovava in ciò nulla di disumano.

Nessuno di questi aneddoti (a cui si frammischiano talvolta notizie, osservazioni o confessioni curiose) potrebbe certo esser letto con quel sapore con cui si leggono per esempio quelli che il nostro Gamba ha tratti recentemente da un manoscritto dell'Oreficeria del Cellini, che fu già della Naniana ed ora è della Marciana di Venezia. Pure avvi in essi (lasciando stare l'infinita differenza della lingua) un nonsoché di vivo, di franco, in una parola di celliniano, che dà molto piacere mentre concilia loro molta fede. Il De Rossi, per quel che appare dalla sua vita, benché scritta dall'Affò con grandi riguardi, fu una specie di Cellini della sua classe. Quindi non fa meraviglia che nel suo scrivere avesse alcun poco della rena del nostro orefice fiorentino; ed è peccato che in più cose non fosse molto più illuminato di lui, poiché anche più di lui sentiva sdegno di ciò ch'è ingiusto, assurdo, oppressivo.

Questo paragone fra il prelato e l'orefice, che mi è caduto sotto la penna, mi fa ricordare che anche il prelato racconta i suoi aneddoti relativi alle arti, che non sono i meno interessanti. Voglio citarvene uno, conveniente alla stagione del carnevale in cui siamo, cioè relativo all'arte della musica, e con esso far fine a questa prima lettera, che, a volervi parlare in essa del resto del codice, riescirebbe interminabile. Non so se voi leggiate regolarmente la Revue française, che da un anno soltanto ha cominciato a comparire, e a me sembra senz'altro uno dei più sugosi giornali d'Europa. In un bellissimo articolo sulle vicende della musica, al quale diede motivo l'Assedio di Corinto del nostro Pesarese, è detto, come nell'Orfeo del Monteverde cantato a Venezia nel 1607 si udì un'orchestra di 32 strumenti di 13 specie diverse; cosa inconcepibile per quel tempo, se lo spartito dell'Orfeo non ci spiegasse l'arcano, mostrandoci che i 32 strumenti mai non suonavano insieme, ma si repartivano in gruppi o in tante piccole orchestre, ond'era accompagnato il canto di ciascun personaggio. Or leggete questi pochi versi del De Rossi, scritti intorno alla metà del secolo decimo sesto. "Alessandro Striglia mantovano, eccellentissimo musico in questi tempi, compose un canto a 4 voci con 15 sorti di strumenti, cantato in Firenze, il che fu cosa nuova, che per ciò ad alcuni piacque ad altri rendè confusione, essendosi ciò anco fatto nelle nozze del duca di Mantova, il che non ho mai più udito in tali discipline, ec.". Eccovi dunque nel nostro Striglia o Strigi (come lo chiama il Bettinelli, il quale non dice altro di lui se non che si trovava alla corte d'Èrcole II d'Este col celebre Alfonso della Viuola, ed era talvolta per la sua bravura invitato a Firenze, ove se la intendeva col Corteccia maestro della cappella di Cosimo) eccovi una specie di Mozart o di Rossini mezzo secolo circa prima del Monteverde e più d'un quarto di secolo innanzi al Caccini ed al Peri. Questo fatto, ch'io suppongo ignoto anche al conte Orloff, la cui storia della musica italiana sarà sicuramente stata consultata dall'autore dell'articolo della Revue, merita d'essere verificato, e certo valeva solo la pena ch'io mi leggessi questo terzo di codice che, per ora chiudo, augurandovi meglio che codici o aneddoti musicali, ove amiate di divertirvi ec. ec.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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rev. 100705