Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera quarta

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È ormai un anno che ho promesso di scrivervi — dalla sera antecedente all'altra vostra villeggiatura — da quella sera che leggevamo, ridendo, nel Discorso del Foscolo intorno al Decamerone la disputa sul Badajuolo di non so che Cronichetta della raccolta del Manni.

«Badajuolo non è nel Vocabolario: vien forse da bajulus? vorrà .forse dire facchino?» — Badajuolo non è nel Vocabolario, noi dicevamo, e non vi può essere. Vi è bene il nome che dovrebb'essere nella Cronichetta, un nome che vien da biade, come un altro di simile desinenza e di più speciale significato vienie da grano. — Indi proseguimmo, trattenendoci alcun poco su quel nostro tema favorito, la scienza della lingua che qui si acquista in mercato. Anche il mercato, io diceva, può vantare i suoi classici; ed io ne ho per le mani uno molto antico, appunto un Biadajuolo, autore d'un Diario da lui intitolato Specchio Umano, bellissimo fra' Codici Tempiani: ve ne scriverò fra pochi giorni, mentre sarete al paretaio o alla frasconaja. — I giorni li ho lasciati fuggire da vero smemorato; ma non lascierò una seconda volta fuggir 1'occasione. Il gran passaggio d'uccelli, che sento essere quest'anno, vi occuperebbe a segno, da farvi trovar intempestiva una lettera, che 1'anno scorso avreste gradita?

Di tutti i Codici Tempiani Io Specchio del nostro Biadajuolo è forse il meno ignoto. Mezzo secolo fa ne diede una specie di compendio Vincenzio Fineschi archivista di S. Maria Novella, intitolandolo Storia d'alcune antiche carestie e dovizie di grano occorse in Firenze, cavata da un Diario manoscritto in cartapecora del secolo decimoquarto. Correva un anno di nuova carestia (il 1767); bramavasi provvedere a' popoli che si dolevano; e il Fineschi, a cui la sorte mise innanzi il Diario, mentr'egli andava in cerca di tutt'altro, pensò che il compendiarlo gioverebbe all'istruzione de' provveditori. Nè, a dir vero, pensò male; benchè rimanga dubbio s'egli avesse in mira propriamente l'istruzione migliore. Quest'istruzione, ch'ei lasciò, per cosi esprimermi, racchiusa ne' fatti, fu poi esposta con chiarissimo ragionamento dal nostro amico Emanuelle Repetti iir una memoria ch'ei lesse, or sono quasi due anni, all'Accademia de' Georgofili, ove sedeva allora segretario degli atti.

Mal potrebbe giudicarsi del contenuto del codice (172 pagine, non comprese 6 bianche, di foglio un po' maggiore dell'ordinario) guardando al suo frontispizio di mano moderna, se il frontespizio non fosse corretto da una nota e da un ricordo che il Fineschi vi pose, l'una a piè di pagina, l'altro di contro sull'assicella dell'antica legatura. Fra il ricordo e la nota può quasi indovinarsi quello di che ci è data indi a poco piena contezza in un proemio non breve, e innanzi al proemio ci è pur dato qualche indizio in un registro de' prezzi del grano e altre biade dal 1309 al 1319 inclusive «ritratto, com'ivi si dice, d'in su altri libri di biadaiuoli».

Prima di parlarci nel suo proemio il Biadajuolo del Codice ama mostrarsi a' nostr'occhi (per mezzo d'una doppia miniaturetta posta all'alto del proemio medesimo) nel suo magazzino e nella sua bottega. Nel magazzino egli è in piedi fra bigonce di grano e altre biade, e uomini forse venuti per visite d'officio o per compre all'ingrosso. Nella bottega sede al banco scrivendo fra altre bigonce e altri uomini (forse compratori al minuto) sotto d'una crociera che pende dalla soffitta, e da cui pende una piccola misura (un quarto o un quartuccio) tenendosi a destra vaglio e crivello appesi al muro, a manca lo stajo sopra una piena bigoncia, il tutto com'anni sono ancor potea vedersi in una bottega di Via de'Castellani non lungi dalla Loggia del Grano, sull'un de' canti di quel chiassolo, che dall'altro ha l' albergo della Fontana.

Scrivendo le cose del banco il nostro Biadaiuolo scrive in parte quelle del suo Diario, cominciato col giugno del 1320, e terminato o piuttosto lasciato in tronco nel novembre del 1335. Al Fineschi sembra assai poco a proposito il titolo ch'ei gli dà di Specchio Umano. Al Repetti, ne son certo, sembra più che a proposito, ma per ragioni un po' diverse da quelle che pur sono accennate nel proemio. Il buon Biadajuolo, mosso dalle carestie assai più che delle dovizie di grano, che nel tempo già detto veramente furono poche, e guardando le carestie come punizioni di que' vizii, «che oggi per noi con cieca opinione si reputano benefncti», vuol presentare a' suoi lettori uno specchio morale, «recargli. com' ei dice, a via di conoscere la loro miseria e la potenzia di Dio loro fattore, al cui nome e reverenzia, ei prosegue, e della sua gloriosa madre, e dello eccellentissimo difensore della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, nel dolce seno della quale nato fui e nutrito, ec., alla presente povera fatica mi metto».

Sì belle frasi, una delle quali parrebbe tolta al Convito di Dante, se già non si trovasse nelle più vecchie Cronache, giustificano, se pur non fanno sembrare assai modesto, l' appellativo ch'io gli dava pocanzi di classico di mercato. Né questo classico, il qual sicuramente anche fuori di mercato può sembrare di qualche autorità per la lingua, è senza artificio di stile e di storica composizione. E l'annunzia in quel passo, ove prima di dirci il suo nome, ci dice come al Diario o registro mercantile verrà frammettendo episodi, pitture o miniature che vogliam chiamarle, ec. ec. «E loro priego (i suoi celesti protettori) con divota petizione, che in questa opera di questo libretto intitolato Specchio Umano, ove si tratterà l'anno e 'l mese e 'l die quanto è venduto il grano e altra biada in sulla piazza d'Orto Sa' Michele, e alcuno crudele caro e fame sentiti in quella già detta mia patria e in tutte l'altre sue circustanti cittadi e altre più e diverse parti, scrivendo tra essi d'altre sconcissime cose adoperate e commesse contro quella (Fiorenza) dal comune ovvero signori di Colle di Valdelsa, e altre vituperose, diverse e tradiaboliche opere perpetrate per lo comune di Siena, e mostrando, come meglio si potrà dipignere, la dilettosa divizia e che cosa sia e d' onde proceda, e la schifalta (forse diffalta) che l'uomo prende uel tempo della lucente abbondanza, e la cruda, maledetta e greve carestia, e come da Dio è permessa e altre cose, che per me Domenico Lenzi Biadajuolo, grosso e idiota componitore d'esso, meglio e più vere trovare si potrà intorno alla già detta materia, prestino ajuto e ardire per loro misericordia e pietà».

Sere sono l'egregio Leopardi, cui e per la riverenza ch'ei merita, e per l' amicizia che gli professo , vo non di rado a visitare, parlando meco del Maestruzzo e di qualch'altro antico libro, con sua molta meraviglia ancor inedito: «vedete, diceva, questi vecchi Toscani e Fiorentini specialmente: vollero fare cinque secoli sono ciò che fan oggi Inglesi e Francesi, render popolari tutte le cognizioni. Anche il nostro Biadajuolo col suo libro storico statistico o statistico morale è da annoverarsi, parmi, fra' vecchi Toscani or rammentati. La cui intenzione, come pe' loro tempi fosse adempita, può argomentarsi dal libro stesso del Biadajuolo, il quale tanto imparò da poter anch'egli, benché illetterato, scrivere pel popolo, e credersi non indegno del giudizio de' letterati. E pognamo (così verso la fine del proemio) che con volgare materno fatto, non per ciò (il mio libro) sia spregiato, chè latino mai mia lingua non apprese, pregando ciascuno che senza livore invido, se alcuna cosa ci à, sì come io credo, mal fatta o non bene composta, reputi ciò al mio poco senno e facultà, e dolcemente il corregga».

Di questo proemio (a cui succede una breve dichiarazione del modo tenuto, ossia delle formole d'arte usate nel Diario) il Fineschi reca appena una frase brevissima. Né le molte che in seguito ei parebbe recare di tutto il Diario, intessendole al proprio compendio, sono, se non di rado, genuine. Di che non so dire se più debbano accagionarsi le scorrezioni e i glossemi, ond'è spesso assai difficile ad intendersi un manoscritto che a riguardarsi è bellissimo, o il timore di non so che ripugnanze volgari pel linguaggio de' nostri vecchi scrittori.

Forse per la difficoltà dell'intendere, non solo il Fineschi scambiò alcune delle parole più proprie, ma smarrì, come potrete riscontrare a vostr'agio, la vera sintassi in questo periodo della miglior parte del Diario: «Durando qui in Firenze tanta e sì crudele fame e caro, certo, signori, che leggete, dovete sapere che l'altre parti del mondo non furono senza essa, ma in tutte parti, secondo che alcuni di fede degni rapportarono alla nostra cittade, ella si sentì tanto cruda e grave, che i poveri ricorrevano a diverse radici d'erbe e frutti d'arbori e carni da quinci a dietro schifate non che dalla bocca ma eziandio dal naso». Forse per timore delle ripugnanze volgari, a forza di polire e ridurre a grammatica, ei rese esangui, e privò al solito delle più belle proprietà non pochi passi, come questo: «Il detto dì (sabato santo del 1329) v'ebbe molti compratori, tanto che 'l grano venne meno loro, e le staja erano riposte. E li cattivelli, che erano nella piazza, non poteano avere avuto del grano. Erano grande gente e stavansi piangendo dirottamente. E gridavano inverso i Sei (gli officiali dell'Abbondanza, detti i Sei della Biada): misericordia! increscavi di noi, chè noi non moriamo di fame per questa santa Pasqua! consolateci e aiutateci per amore di Gesù Cristo! E i detti Sei, udendo quel pianto e lamento terribile, si mossono a pietà, ec.»; — o come quest'altro: «E incontanente andò ser Villano (ser Villano da Gubbio, cavaliere del potestà) colla famiglia, cacciandoli e sfolgorandoli co' bastoni e coll'aste delle lance, e non riguardando più uno che un altro. A questo n'uscirono dalla piazza detta d'Orto Sa' Michele uomini e garzoni mille o più che v'erano entrati per avere del grano. Poscia (i Sei) feciono fare i serragli alle bocche della piazza, e stavano guardie che cacciavano quelli che venivano di fuori, e non vi lasciavano entrare persona né grande né piccolo per veruna cagione».

Anche questi due passi son presi da quella che ho chiamata miglior parte del Diario, la narrazione cioè della gran carestia che fu tra il 1328 e il 30. Fino a questa narrazione il Diario, che si riparte secondo i mercati di ciascun mese (secondo i giorni, per usar la sua frase, in cui vi fu piazza) , è un po' magro e monotono. Il Fineschi, nondimeno, che compendiandolo lo illustra, valendosi or d'una or d'altra delle Storie più conosciute, ne cava pure illustrazioni o correzioni alle Storie medesime. Guardando, per esempio, a ciò che vi si dice sotto la rubrica del luglio 1320, ei corregge la cronologia de' vicari dei re di Napoli in Firenze, qual ci è data nella Storia dell'Ammirato; — guardando a ciò, che vi si dice sotto la rubrica del settembre 1325 , ei conferma contro le Storie Pistolesi la data che si assegna alla sconfitta d'Altopascio nella Vita di Castruccio.

Ma il Diario non è che per accidente un libro storico. Ciò che vi si cerca sopratutto son le notizie statistiche, le qualità e i prezzi del grano e delle biade propriamente dette, nel tempo a cui si estende. E il Fineschi, il qual mai non perde d'occhio queste notizie, dopo avercele nel suo compendio presentate sparse, come son nel testo, ha cura di darcele anche raccolte. Dieci qualità di biade, egli osserva, fornivano in quel tempo la piazza d'Orsammichele (miglio, panico, segale, orzo, spelda, fave, vena, cicerchie, mochi, saggina) 1'una, cominciando dalla prima, di maggior costo che 1'altra, se qualche causa straordinaria non veniva ad alterare questa gradazione. E colle biade fornivan pure la piazza quattro qualità di grano (il calvello, il siciliano, detto anche gran duro, il comunale e il grosso) 1' uno, cominciando pure dal primo, di maggior costo che 1' altro, se tal gradazione per caso non era alterata.

Di queste varie qualità di biade e di grano, eccetto una sola, 1' uso toscano ha conservato il nome. Di quella, della quale non l'ha conservato, cioè del calvello, gran disputa fra i pochi a cui non sembra vano il disputare di tali cose. Il calvello, dice la Crusca , «è una sorte di grano corrispondente al nostro grano gentile , atto a far pane buffetto». Ma il Targioni, dice il Fineschi, mi assicura d'aver letto in un contratto di livello della Certosa di Pisa: «grano buono e carvellino: s'intende che sia d' una certa grossezza da non poter passare dai fori del vaglio». Or se il calvello, ei prosegue, è lo stesso che il carvellino sopradetto, dovrà intendersi per esso quel grano che crivellato riman migliore. Al qual luogo uno de' Baldovinetti (Gio. di Poggio) in una copia da lui postillata del compendio del Fineschi, e or posseduta dal Bigazzi, cita altri contratti di livello d'altri monasteri di Pisa, ove leggesi «grano buono mercantile carvellino, cioè crivellato» e non esita a dire che il calvello è il grano separato col vaglio da' semi e da' gusci, mescolativi sull'aja dopo la battitura.

Se non che il calvello del Diario è un grano particolare di tal nome, cui serba pur sempre, sia o non sia passato pel vaglio. E l'aggiunto di mercantile al carvellino o calvelhno in alcuni de' contratti citati mi farebbe pensare che si trattasse in essi di quel grano di terza classe che nel Diario è detto comunale. E 1'altro aggiunto di buono mi farebbe pur sospettare che il carvellino fosse un aggiunto della medesima specie, e significasse, come effetto della vagliatura, il somigliare al calvello. Il qual calvello potria ben essere 1'odierna calbigia, che qui abbiamo in mercato , sorte di gran gentile, come dice la Crusca del calvello, molto rosso al di fuori, bianchissimo al di dentro, e atto, poichè oggi di pan buffetto quasi più non si parla, a far kiffeli e semeli. La nuova Crusca, spero, chiarirà questa questione, e chiarirà pur quella del preciso significato di crivello e di vaglio, che la vecchia Crusca confonde, che il Fineschi, il Baldovinetti ed altri usano promiscuamente, ma che la biadajuola della Vigna Nuova presso il mio ristoratore m'ha insegnato a distinguere, chiamando vaglio quello dai fori tondi, e crivello quel dai fori triangolari e quadrangolari.

Or vengo alla narrazione della gran carestia che già accennai, a quella parte del Diario che merita particolarmente il titolo di Specchio Umano. «O tu che leggi, dice il buon Biadajucilo, odi quanto Dio è da temere; odi quanta è la sua potenza; odi pagamento duro ch'esso rende; vedi bastone di che tu se' domato, ec. ec.». II Repetti, guardando all'istruzione economica, dice che se ancor potesse dubitarsi della bontà de' principii contenuti nell'opera del Fabbroni sui provvedimenti annonari (di que' principii che già son passati da un pezzo nelle leggi della Toscana, che Huskisson e Canning si sono sforzati di far passare in quelle dell'Inghilterra, e che, se non m'ingannano le parole ancor recenti di De La Borde alla camera di cui è membro, già son vicine a passare in quelle di Francia) la narrazione della gran carestia, qual 1'abbiamo dal Biadajuolo, basterebbe a togliere ogni dubbiezza.

Questa narrazione è un'appendice preziosa a ciò che narra della carestia medesima nel decimo della sua Cronaca (cap. 118) Gio. Villani, quello cioè fra gli storici che la narra meno sommariamente. Tanto più preziosa, al dir del Repetti (la cui memoria manoscritta ho desiderato di leggere dopo averla ascoltata) che il Villani, stato, anch' egli uno de' Sei della Biada, attribuisce ad alcuni loro provvedimenti un'efficacia, ch'è pur forza cercare in cose da lui non mentovate.

Erano i Sei (come raccogliesi da Goro Dati, a cui accresce fede il nostro Biadajuolo) un magistrato straordinario, che si creava quando il comune era minacciato dal più terribile de' nimici, la fame. Comparso la prima volta, per quel che sembra , nel 1285 , esso più non si rivide che nel 1328, nel mese stesso (settembre) in cui Firenze, uscita dalla suggezione de' reali di Napoli, ebbe di nuovo, invece de' lor vicari, i suoi antichi potestà. E questi e gli altri magistrati erano, per tutto ciò che si riferiva a cose annonarie, ministri del suo potere, il qual non avea quasi altri limiti che quelli del tempo, ristretto a pochi mesi. Il numero de' componenti un tal magistrato era prescritto in qualche modo dall'ordinamento politico della città, divisa allora per sesti. Se mai, come abbiam dal Fineschi, i Sei si ridussero a quattro, ciò non potè essere che dopo che la città fu divisa in quartieri. Ad otto non credo che giugnessero mai, benchè il Fineschi lo dica, fidandosi alla testimonianza di non so quale autore. L'autore probabilmente fece di magistrato con essi il notaio e il camarlingo semplici aiuti, o riguardò come aggiunti quelli che per caso erano sostituiti.

I Sei del 1238 (tra i quali non fu il Villani, venuto assai dopo) trovarono, al loro entrare in officio, che il grano calvello, costato al ricolto soldi 17 e dan. 6 (1. 3, 11, 5 dell'attual moneta) per ogni staio colmo (o libbre 52) già si vendeva soldi 23 e 6. Essi avrebber voluto, chè a ciò appunto eran chiamati, far cessare il rincaro. Ma, checchè si facessero, questo invece andò crescendo ognor più. E già sui primi di febbraio (che pei Fiorentini era ancora del 28) il calvello si pagava soldi 30, mezzo fiorino d'oro all'incirca, ossia metà del nostro zecchino. I Sei allora guarditisi in viso, com'io m'imagino, fra attoniti e corrucciati, sia questo, dissero, 1'ultimo termine del rincaro. Infatti di lì a. poro mandaron bando che nessuno, il quale avesse grano, si .ardisse chiederne un danaro più di soldi 30 , sotto pene gravissime, e stabiliron forni (a quel che sembra), due per sesto, che desser pani di 6 once per 4 danari. Frattanto, come il grano sulla piazza d'Orsammichele (ove sedevano a panca o giravano da nona a vespro) si faceva assai raro, per attirarvelo di nuovo, offerirono di dar essi a spese del comune a soldi più di que' 30. Ma, non giovando, un bel giorno fecero dire a' più ricchi della città che volessero far piacere di ben fornire la piazza; e per quel giorno la piazza fu ben fornita. Non essendolo anche in seguito, e il popolo rammaricandosi, eglino sui primi d'aprile (anno nuovo , che cominciava, come sapete, li 25 marzo) mandarono un secondo bando, che chiunque avesse grano o altro più che per suo vivere di lì alle calende di luglio, lo desse loro in iscritto, fra cinque dì se abitava in città, e dieci se in contado. Poi, o l'indugio paresse loro soverchio, o volessero prevenire quella che da loro dovea chiamarsi frode, o temessero, come dicevano, la venuta del Bavaro ch'era a Roma, il terzo dì chiamarono a sè la famiglia del potestà, quella del capitano, quelle dell'esecutor di giustizia e del bargello, le agguerrirono assai bene, le ripartirono in due schiere, 1'una per la città, 1'altra pel contatio, e con picconaj innanzi armati di scure rhe rompessero all'uopo usci e muri, le mandarono «cercando (in ogni casa) giù nel terreno e nelle celle, e suso nelle camere, sotto il letto e nelle lettiere, e in casse e soppediani ed arche e stovigli laddove credessero trovare grano o biada ec.».

Peggio ancora fu quel che fecero indi a pochi giorni ad alcuni biadaiuoli e granajuoli mal avventurati. Poiché li obbligarono (comperando essi Sei pel comune) a vendere per 37 soldi il grano che lor ne costava 41 sul mercato di Fighine, più soldi 2 e danari 6 per vettura a Firenze e gabella.

Non so se appunto per queste cose il nostro Biadajuolo dia a' Sei il titolo di buoni e prudenti. Quanto fossero buoni, il vedete; quanto prudenti, il mostran gli effetti. Già di grano calvello da qualche tempo (in piazza almeno) più non si parla. Appena può aversi del comunale, mescolato or con un quarto or con un terzo d'orzo o di spelda o di vecchie fave. E come i Sei si sforzano, per che vie non importa, di mantenerne il prezzo al disotto dei soldi 40, anche questo grano si fa sempre più raro. Quindi grande affollamento alle bigonce, e ruberie e zuffe e percosse e tramortimenti e affogamenti, cui mal riescono ad impedire e berrovieri e manigoldi, e ceppo e mannaja, che i Sei fan porre e adoperare, come il Villani attcsta, e il Fineschi conferma con pergamene dell'archivio a cui soprintende. «Oh città mal guidata!» grida il popolo, ed ha ragione. Se non che, facendo interamente il suo desiderio, ella sarebbe guidata ancor peggio. «Noi non possiamo avere del grano, ec. E' si vorrebbe andare a casa di questi ladroni che n'hanno, e mettervi il fuoco e arderli, ec. ec.» Così il popolo di Parigi, nella terribile carestia del 1796, gridava alle sbarre della convenzione: o pane o morte! Boissy d'Anglas dal suo seggio di presidente (soggetto di pittura proposto col giuramento di Luigi-Filippo e la famosa protesta di Mirabeau per la nuova sala de' Deputati) promette quel che può promettere, né per minacce si lascia piegare dal giusto. Se mai i Sei aveano il suo coraggio, certo eran lungi dall'avere la sua saggezza; e il popolo, che or più or meno cercavan di soddisfare, ne soffriva ognor più.

I Sei, che nel maggio succedettero ai primi, cominciarono dal vietare che il grano si vendesse più di soldi 40, come que' primi avean cominciato dal vietare che si vendesse più di 30. Frutto del nuovo divieto si fu, che sul cominciare di giugno appena poteva aversene per un fiorino e soldi 5. Il simile e per simile cagione avvenne nel tempo medesimo a Siena, la capitale, come dice il Repetti, delle granifere Maremme. Ad Arezzo invece, com' egli osserva, citando 1'autore degli Annali Aretini pubblicati dal Muratori , non essendovi divieti annonari, il grano mai non costò più di soldi 50, eh'è quanto dire mai non mancò come qui, ove molti, giusta le frasi del Biadajuolo, eran ridotti a pascersi, «di cavoli, di susine, di lattughe, di radici d' erbe, di melloni, di cerconcelli, chi cotti e i più crudi, e di diverse carni, chi di cavallo, chi d'asino e chi di bufala senza pane ec.»

In questo stato di cose, i nuovi Sei, lasciato di far vendere grano in piazza, cominciarono a far distribuire, due volte il giorno, pane alle chiese, in sull'ora di terza, e in su quella di vespro. A principio il lor pane, che davasi per danari 4, era di 5 once e mangiabile, sicchè avrebbe contentato ognuno, ove si fosse distribuito con meno parzialità. In seguito si fece nero, liscoso e sì piccolo, che il popolo nelle sue doglianze lo assomigliava a' panellini di Badia; a' pani benedetti di non so qual compagnia di quella chiesa, dice il Fineschi; a pani di digiuno di que' monaci, corregge il Baldovinetti.

Alfine i Sei, non isperando che la distribuzione potesse a lungo continuare, mandaron bando che ormai ciascuno facesse e vendesse pane della misura e al prezzo che gli piacesse, e portandolo dal di fuori, anzi che pagar gabella, ne ricevesse un piccolo premio. A questo bando non solo cominciò a portarsi in sulla piazza ottimo pane, e in bastante quantità, e a giustissimo prezzo (once 10 per dan. 11) fino da venti miglia di distanza, ma cominciò pure a ricomparire grano d'ogni specie, anch'esso a giustissimo prezzo (quello, che già valeva un fiorino e più, scese gradatamente sino ai 38 soldi) sicchè tntta la gente, dice il buon Biadajuolo, si maravigliava. Ed egli pure stupefatto ebbe ad esclamare: « oh somma provvidenza! chi avrebbe mai creduto, ec. ec.». È vero che i Sei si diedero subito gran cura di guastare la provvidenza, mandando un altro bando, che i biadaiuoli e i granajuoli non potessero quind'innanzi far incette su mercati nè qui nè all'intorno. Ma come già era arrivato di Sicilia, di Romagna, d' altri luoghi, non poco grano a spese del comune, non si vide per allora segno di scarsezza. Anzi al nuovo ricolto l'abbondanza parve così sicura che i Sei, smessa la distribuzione del pane alle chiese e rimesse in piazza le bigonce, sul principio di luglio rimisero pure la gabella sul pane che venisse di fuori, e permiser di nuovo a' biadaiuoli e granajuoli le loro incette.

Se non che il ricolto fu poco meno scarso che l'anno antecedente; il grano estero andò presto mancando; e verso il settembre cominciarono a sentirsi nuove strettezze. Quindi ecco i Sei, come né essi né i loro antecessori avessero ancor fatta veruna esperienza, ricorrere a' rimedii consueti: tassar di nuovo il grano (a soldi 30 ) perché si nascondesse; impedir di nuovo le incette, perché il grano all'uopo fosse impossibile a trovarsi, ec. ec. E questi bei provvedimenti lasciarono ai successori, qnand'usciron d'officio alla metà del mese.

I successori, gente brava e risoluta, parendo loro che il fatto dagli altri fosse poco, se l'intesero subito (il giorno stesso del lor ingresso) con ser Villano, valoroso uomo, di cui il nostro Biadajauolo ha gran stima, per fare qualche cosa di più. Il dì seguente, prendendo tempo frattanto a maturare un gran disegno, mandano a dire, come già que' primi Sei del 1328, a' più ricchi della città, che vogliano ben fornire la piazza; e la piazza, come l'altra volta, è per un giorno assai ben fornita. Di li a qualch'altro giorno, finalmente, fanno richiedere sessanta fra biadajnoli e granajuoli, i quali accorron tosto per sentire che si voglia da loro. Noi vogliamo, dicono loro i Sei , consigliarci con voi «come uomini molto di ciò avvisati» se «coll' ajuto di Dio» ci fosse modo di far un poco rinviliare il grano ec. Pensateci e domani sull'ora di terza venite in piazza e diteci il vostro parere. All'indomani non tutti inchiesti, ma più d'una metà, cioè trentasei, si presentano di nuovo. Oh benvenuti! dicon loro i Sei. Quanto ci spiace d'esser ora impacciati come vedete! Ma non vogliamo che abbiate gettato i vostri passi. Fate una cosa: ecco qui il nostro ser Villano che può ascoltarvi per noi: entrate seco in casa (probabilmente nella casa de' Macci ove i Sei si radunavano a consiglio) e ditegli quello che vi par meglio. Ser Villano, fattili entrare, li raccoglie in una stanza, indi li chiama uno ad uno in un'altra per scriverne il nome, e farli passare in una terza, ove, quando son tutti, li chiude e se ne va a palagio a desinare col potestà. Fra poco ecco berrovieri che vengono a prendere a due, a tre, gli uni dopo gli altri, i trentasei e condurli alle Stinche (e questa, dice il nostro Biadaiuolo, fu ottima cosa) ove sono per certa somma raccomandati dai Sei. La notte seguente, sul primo sonno, quattro di loro son risvegliati e ricondotti dalle Stinche alla casa già detta, ove trovano Ser Villano, che questa volta li fa spartire, poi collare uno ad uno, chiedendogli « quanto grano o biada (egli e ciascun degli altri biadajuoli o granajuoli) ha in bottega o in casa; chi sono coloro che in Firenze abbiano comprato grano per endicare, ec.», aggiugnendo: « tutto questo voglio io sapere, se tu non vuoi che le braccia rimangano alla fune senza alcuno rimedio.» Poiché tutti quattro hanno detto quello che a ser Villano piace d'intenderne, son rimandati alle Stinche, d'onde vengon tratti quattro altri, ai quali è usata la medesima benignità. Corre intanto voce di questi fatti, e par che non se ne giudichi molto favorevolmente. I Sei, vinti dalle istanze de' principali cittadini, fanno tra alcuni giorni liberare i detenuti, con che però ciascun di loro dia mallevadore, che fino a' 15 d'ottobre non comprerà, non venderà, non pattuirà né grano né biade sia in Firenze sia in contado ec. ec.

Che avvenne frattanto? Proibito il vendere se non al prezzo che piace ai Sei, cioè, come s'esprime il nostro Biadaiuolo medesimo, se non con iscapito; proibito a quelli, che avrebbero maggiore interesse a provvedere la piazza, il provvederla; la piazza rimane sfornita, e il popolo tumultua e si dispera. «Quando fu sgombra la piazza, dice una volta il nostro Biadaiuolo, tu avresti udito un tuono di pianto con grandi sospiri, dicendo l'uno contro l'altro: sventurato io, almeno non avess'io perduto i danari, di che io potessi comprare il.pane per consolare la famigliuola mia, ec. E tale dicea: oimè! ch'io non so dov'io mi comperi di qui domani, e forse domane non ci avrò com'oggi; chè gli è stata tolta l'arte a' biadaiuoli, e non possono vendere quelli che consolavano noi e la povera gente ec. Che tolto gli sia la vita a chi ha tolto a loro la vendita; chè ne davano a mezzo stajo e quarto e mezzo quarto comunque l'uomo lo volea o poco od assai. Or come faremo? Che? Morremo noi di fame, dappoiché il vogliono questi ladri scannadei grassi che hanno l'endiche del grano? Ma e' verrà tempo che noi ne faremo vendetta colle nostre mani , ec.»

Cosi il soffrire quasi conduceva il popolo ad intendere l'effetto delle proibizioni e delle sevizie, che sempre, benché spesso inutilmente, le accompagnano. I Sei, che rimasero in posto fino alla fine d'ottobre, non diedero segno d'intender nulla. Quelli che succedettero, e fra i quali penso che entrasse poco appresso Gio. Villani, mostrarono d'aver inteso quel grido in lode de' biadajuoli «ch'e' vendevano grano a mezzo stajo, e quarto, e mezzo quarto ec.». Lo raccolgo dal Villani medesimo, il qual narrando anch'egli come i nuovi Sei, verso la metà del mese, lasciato di far vendere grano sulla piazza, fecero aprir canove , tre pel sesto d'Oltrarno e due per gli altri, ove a terza e a vespro si dava pane mischiato d'once 6 per danari 4, fa questa riflessione: «così almeno ciascuno poteva aver pane per vivere, chè tale avea danari otto o dodici per sua vita il dì, che non potea raunare i danari di comperare lo stajo.» E come ei dice d'essere stato uno de' trovatori di questo che a lui pare gran rimedio, cioè delle canove, le quali «contentarono la furia del popolo» debbo credere ch'ei si trovasse fra' Sei del turno di cui si parla, e non fra i seguenti, co' quali il Repetti inclinerebbe ad annoverarlo invece di Matteo suo fratello. Come però fra i Sei di quel turno nel libro del nostro Biadajuolo ei non è nominato, debbo pur credere che vi entrasse indi a poco qual sostituto, come il Repetti stesso mostra di sospettare.

Del resto qual rimedio fossero le canove lo intendiamo da ciò che racconta il Biadajuolo della fame che seguitava a soffrire molta parte del popolo, e de' tumulti che ne erano la conseguenza. Gran male, è vero, faceva la parzialità e l'avidità de' ministri dati a quelle canove. Ma è pur vero che durando, come durava, il prezzo arbitrario del grano (doveva essere allora di mezzo fiorino) , il grano, benché l'incettarlo e il venderlo fosse stato permesso, in piazza più non compariva. Le canove intanto benché servite da trenta forni (come prova il Fineschi con un atto firmato li 30 agosto del 1330, essendo sindaco dell'arte de' fornai Arrigo figliuolo del famoso Cisti del Boccaccio) eran lungi dal poter bastare. E già, come cosa privilegiata, opponendosi alla concorrenza, si opponevano al migliore anzi al solo rimedio di ciò che soffrivasi. Infatti, peggiorando sempre più lo stato delle cose, e avendo i Sei, al principio di marzo, avuto ricorso a quello che dovea parer loro il rimedio de' disperati, avendo cioè essi pure permesso a tutti di fare e vender pane di quella misura e a quel prezzo che a ciascun piaceva, la città fu subito provvedutissima e di pane e di grano, e le canove, obbligate a miglior regola, poterono, benché ormai divenute inutili, sembrare utilissime.

I nuovi Sei, che furono chiamati il 26 marzo, cioè il secondo giorno del nuovo anno, secondo lo stile fiorentino, mantennero per tre mesi gli ordini ereditati dai loro antecessori. Quando il 27 maggio mandaron bando che nessuno potesse far pane per rivendere se non di grano del comune, poi che nessuno potesse vender grano se non mescolato per un quarto con quello del comune, poi che nessuno potesse scaricar grano o biade fuorché sull'Orsammichele, ove faceva mettere le sue bigonce il comune. I Sei, che lor succedettero, confermarono questi e posero altri vincoli, promettendo di più un premio a' delatori; nè fu certo loro merito se non si rinnovarono le triste scene degli anni antecedenti.

Questo ritorno novello dalla libertà alle proibizioni, da un sistema sperimentato buono ad uno sperimentato cattivo, parrebbe, dice il Repetti, quasi incredibile, massime fra un popolo perspicace e mercantile come il fiorentino, ove il libro del Biadajuolo non ce ne porgesse la spiegazione. Già sapevamo dal vecchio Villani, che fra il 1328 e il 39 il comune di Firenze, per sovvenire a' bisogni del pubblico, spese ben 60,000 fiorini d'oro, due terzi de' quali (la settima parte delle publiche entrate), dice, il suo contemporaneo Simone della Tosa, nel solo 29. Ma il grano, in cui questa gran somma era stata impiegata, non era tutto arrivato quando bisognava. Molto andava arrivando al nuovo ricolto che non fu de' più scarsi. Esso costava due e quasi tre volte più che non il grano di questo ricolto. E com'era in gran parte, giusta le frasi del nostro Biadajuolo « guasto , intignato , duro e flatoso» non potea farsi comperare se non per forza. Quindi i bandi del maggio detti pocanzi; quindi altri della medesima specie, che vennero in seguito, e ch'è inutile riferire.

La quale spiegazione cavata dal libro del Biadaiuolo sicuramente è verissima. E pur vero però che in quello che i Sei seguitavano a fare avea gran parte l'abitudine e il pregiudizio. L'esperienza avrebbe dovuto illuminarli; ma essi non avean occhi preparati a quel lume. Leggo in una nota del Say al cap. 17, lib. I del suo Trattato: «il ministro dell'interno, in un rapporto fatto nel decembre 1817, confessa che mai i mercati non si trovarono più sprovveduti come dopo un decreto del maggio 1812, che a tenerli ben provveduti vietava ogni vendita fuori di essi, ec.». Or al tempo di quel decreto nè mancavano esperienze, nè mancavano economisti che le avesser raccolte. Le esperienze del 1795 (vedetele nella Storia del Thiers) dovean esser vive nella memoria di tutti: più altre potean sapersi dal Say medesimo, che pubblicò il suo Trattato quand'era tribuno della repubblica. Ma dal sapere all'intendere par sempre che corra un'immensa distanza.

La prova che i Sei operavano per abitudine e pregiudizio (altri dirà forse per quella fatale necessità che porta a cercar il rimedio d'un fallo in un fallo peggiore) si è che nell'agosto del 30, quando avevano ancora tanto grano che non sapean che farne, chiesero ed ottennero dal comune 6,000 fiorini per comprarne dell'altro, e seguitar così l'usato sistema. Tutta l'arte dell'amministrare si faceva allora consistere (e taluno vorrebbe che ancor consistesse) nel monopolio e nelle proibizioni. Quindi non contento il comune de' suoi Ufiziali della Biada, che facevano mangiar il pane caro e cattivo, creò nell'istess'anno 1330 i suoi Ufiziali delle Grasce, che facessero mangiar cari e cattivi gli altri comestibili. E non contento di questi Ufiziali delle Grasce, creò non so che Giudici o emanatori di nuove leggi suntuarie inutilissime al costume, dice il Repetti, recandone in prova una novella assai graziosa del Sacchetti, e dannosissime, com'ei pur dice, all'industria, recandone in prova le parole del Villani che le approva, come il buon Biadajuolo, economista dell'istessa perspicacia, approva tutte le granellerie dei Sei.

Questo buon Biadajuolo, il quale come statistico è pur degno dell'attenzione degli economisti presenti, ambiva soprattutto di fare il moralista, il che pe' suoi tempi vuol dire 1'allegorista o il predicatore. Del suo gusto predicatorio o oratorio già vi ho dato qualche saggio. Del suo gusto allegorico l'abbiamo fin dal principio della sua più lunga narrazione in due grandi miniature, l'una rappresentante la trista mietitura del 28, l'altra i dolorosi mercati del 28 e del 29. Poichè in ambedue s'alza fra il cielo e la terra lo spirito del male portato da' corvi neri e bianchi (i peccati manifesti, spiega un mio amico, e i peccati vestiti dell'apparenza della virtù) e impugna l'arme, che gli porge dall'alto la mano d'un essere invisibile, che coll'altra tien sollevato un flagello, mentre uno spirito protettore si ritira dalla terra, lasciando cader spezzate più trombe d' oro, forse le trombe apportatrici delle preghiere dei mortali all'orecchio di Dio.

Ma prima che di queste miniature avrei dovuto dirvi degli episodi della narrazione (la fame di Napoli e di Barletta, e i fatti di Siena e di Colle) accennati nel proemio, e adorni pur essi di miniature. La fame di Napoli e di Barletta (posta sotto la rubrica del giugno 1329) è, cosi per vari de' suoi accidenti, come per l'istruzione economica che può derivarsene, il pendent di quella di Firenze. Ma poichè in essa avvenne qualche gran tumulto che in quella di Firenze non fu, il buon Biadajuolo ne trae occasione di esaltare la prudenza de' Sei, che al dir suo ne preservò la nostra città. Recherò parte del suo racconto, di cui, leggendolo nel compendio del Fineschi. non potreste indovinare il vero colore.

«Presso a questo a due die o in quel torno (presso al 5 di giugno) alla città di Barletta adivenne, per lo fatto del caro, che non si trovava grano né pane per la città che poco ne aveà, e quello che v'era si era de' grandi uomini della terra, che l'aveano nascosto in certe fosse sotterra. E la gente minuta era a grande stretta, e non sapeano che si fare uè dire, e andavansi rammaricando e dolendo fortemente, che morivano di fame. E sapere dovete che Barletta è delle più ahbondevoli terre e città quasi delle parti di qua di vittuaglia (è quasi delle terre e città più abbondevoli di vittuaglia che sieno nelle parti di qua), ed è terra di re, ed è molto mercantesca, e sì fallì alla fame predetta con remore di popolo. E la nobile Firenze, sanza danno di suo stato, poverissima di vittuaglia, più che terra quasi che sia tra' cristiani (a quel tempo, anche negli anni migliori, secondo il Biadajuolo medesimo, appena ne producea per 5 mesi) sofferse tanta necessità con ottimo provvedimento di poveri.

«Alquanti gentili e poveri uomini (di Barletta) udendo costoro che si rammaricavano e dolevansi fortemente, sì ne increbbe loro. Allora si levarono con una brigata d'uomini quasi presso (nel torno aggiugne il testo per evidente glossema) di 25, e andarono celatamente in Santo Loe e tolsono il gonfalone del re, e uscirono fuori e andarono per la città chi armato e chi disarmato, gridando muoja chi à grano e viva messer lo re. La gente traeva a questo gonfalone d'ogni parte, e quasi v'era tutto il popolo o la maggior parte. I grandi uomini, quando vidono il popolo della città che andava gridando a sì fatto modo, ebbono paura d'esser morti e tornavansi a casa. E non era ninno ardito d'uscire fuori di casa (sembra una specie di correzione o marginale o interlineare del manoscritto ancor non messo al buono, e copiata di seguito alla frase a cui dovea sostituirsi) per paura d'esser morti dal popolo. In questo fatto si levaro alquanti cittadini grandi e possenti di quella città, e mandarono per lo giustiziere del re celatamente. Ed elli venne incontanente, e venuto, allora presono consiglio insieme come il popolo si facesse racchetare. A questo fatto provvidono di far cercare chi avesse del grano, sì lo dovesse trarre fuori. E incontamente andò il bando da parte di messere lo re e del suo giustiziere, chi avesse grano sì lo dovesse dare per scritto e rassegnare dinanzi al giustiziere predetto, a bando (a pena) della persona, e che tornasse ogni uomo, grandi e piccoli, alle loro case sanza fare più raunata; e in questo modo fue racchetato la città, ec.».

Narrando i fatti di Siena e di Colle non solo il buon Biadajuolo ha voluto far da oratore, esclamando e apostrofando alla maniera che fa il Compagni nel secondo specialmente della sua Cronaca, ma ha pur voluto riescire drammatico. I fatti di Siena (che seguono nel suo libro la rubrica di maggio) sono il comando dei Nove, cioè de' signori della città, al rettore dello spedale di S. Maria della Scala di sospender le limosime ch'ivi si facevano ogni settimana, il tumulto de' poveri ch'indi ne seguì, e il loro discacciamento, onde furono costretti venire a Firenze, che trovò modo di soccorrerli. Questi fatti son esposti alquanto diversamente in un ricordo che il Fineschi allega dell'archivio dello spedale detto pocanzi. Per esso vedesi come il comando dei Nove non fu già di sospendere assolutamente (cosa per sé stessa molto inverosimile) ma di unire temporariamente le limosine dello spedale a quelle del comune, e farle con nuovo reparto servire ad un maggior numero di persone. Il buon Biadajuolo, mosso forse da quelle antiche gare tra Siena e Firenze , di cui e Dante e il Compagni già detto vi son testimonii, seguì la fama peggiore. Io vi recherò alcuni passi del suo racconto, svisato al solito nel compendio del Fineschi, onde giudichiate se il drammatico vi si mostri al pari dell'oratore.

«Mandarono per lo detto ministro messer Giovanni (messer Giovanni di Tese de' Tolomei) i Nove sopraseggenti a quello comune e di quello cittadini non piccoli. Il quale alla loro presenza domandò che per loro da lui si chiedeva? O insuperbita Siena, oda tutto lo mondo chi tu se'. Rispondendo comandarono che a pena del fuoco tanta limosina (un pane di 14 once ad ogni povero, e il doppio alle donne gravide, tre giorni d'ogni settimana) da quindi innanzi al postutto si rimanga sanza più farsi. Correte o universi: qui non si dice che solamente bene non si faccia, qui non si comanda solamente che a Dio sia fatta ingiuria (ho qui rimessa a posto qualche particella, e tolto qualche glossema) ma che tutti quelli, a cui soli Iddio è fratello, si lascino morir di fame in ricco e pabuloso albergo, ec.

«Tornavano adunque come in loro rifugio i poveri lo seguente die a quello spedale, aspettando venire cui credevano, cioè l'usata benedizione e refrigerio. A' quali così di fuori aspettando venne chi credevano, che, dicendo entrate, tutti li consolasse, ma volto il dolce chiamare in isventurato accomiatare così disse: andate affamati e mendichi (anche in questo luogo ometto un assai probabile glossema), chè da' signori di qui n'è comandato lasciarvi perire nelle vostre miserie, a pena d'essere dal fuoco e noi e le nostre case e beni consumanti: non ae più la carità passata. A tanta crudele e chioccìante (se pur non deve leggersi crucciante) risposta s'udirò infinite boci e percosse di mani, urli e pianti e graffiari di visi come a l'ultima piaga d' Egitto, ec.

«Così correndo con disperata provvisione quelli poveri senza novero al maggiore palazzo, dove quelli comandamenti dinanzi erano fatti, gridavano chi misericordia, chi al fuoco, chimuoja, chi una e chi altra cosa, tanto che a sì fatto rumore tutta la città corse. Armasi chi può per se medesimo garantire. Escono fanti armati fuori del palazzo che a quello rumore de' poveri contrastesse. Poco valse. Ma rivolto i poveri lo intendimento del dire in aoperare (non noto per non nojarvi gli altri glossemi che tolgo) con sassi e con mazze percotendo combatterono quello palazzo, rincacciando dentro (gli armati) forse con paura di maggiore loro danno. A questo romore corse afforzatamente Guido Ricci di Reggio, capitano di guerra della città, a cui, di morte non curando, s'accostò un fante con una stanga, e sulle reni un colpo con quella al detto Guido crosciò, sì che l'arme buone che'n dosso avea appena dalla morte il camparono. Ed ebbevi grande mischia e assai di quelli che furono fediti e malamente d'ogni parte. E se non fusse che forse a Dio ne'ncrebbe , il dì (quel dì) poteva avere Siena, ec. ec.

«Di poi che'l romore fu chetato, fortemente s'inquirì di chi fosse stato lavatore o consentitore a tanto maleficio e romore. E furonne presi una notte in sulle letta loro ben sessanta uomini, e di questi ne furono collati tanti che ne furono impiccati per la gola dieci, tra' quali fu quelli che'l capitano percosse. E tale fu tra gl'impiccati, che forse mai di quello romore non avea udite le novelle. E anche ne furono (cacciati) in bando ben quattrocento o più o in quel torno. Ma questa è l'opera di quella città. Gli altri (si può intendere di que' presi e non impiccati) stettero parecchie dì in pregione. Niente per questo finirò gli assalimenti crudeli della fiammace (non ho saputo legger altra) Siena, né della crudeltà si ristronsono alquanto i freni scorsi ec. Per ciò che a piuvico consiglio si vinse che di Siena al postutto i poveri scacciati fossono, e che alcuna sovvenenza per amore di Dio più non si facesse loro. Ahi dura terra perché non t'apristi! ec.

«A la quale cosa grido di tromba uscì e seguì dicendo ch'a pena della persona ogni povero forestieri debbia sgombrare la città da uno al terzo dì. E andarono tutta la familia con bastoni e con pietre duramente percotendoli e cacciandoli fuori delle porte, non guardando piccolo o grande, femmina o maschio, gravida o non gravida, i quali, così cacciati, a Firenze, come loro fine e indubbioso rimedio e fonte viva di misericordia, ricorsono. Ove furono bene ricevuti e fatto loro assai bene. Ed essi, a Dio rendendo grazie, per quella pregavano divotamente, ec.

«Questa opera bastò dì otto o in quel torno. O sanza dubbio alta e divina eccellenza del sommo fattore, chi può più dire? E tu Firenze, chiamando gli affamati, amici e nemici della tua poca vittualia saziavi, bastandoti solo che a Dio piaceva che del tuo poco abbondassi nella miseria delli afflitti poveri. Ma perciocché tuttora avviane che chi sa cognoscere per se con figura non sa forse leggere (trascrivo ciò in una delle stanze assegnate dal march. Tempi alla Società del reciproco insegnamento, e lego nella mia mente i fatti presenti e i passati) e per più d'infamia a tanto male rapportare, e gloria e onore perpetuo alla mia Firenze soprapporre e aggiugnere, nella presente pittura (due grandi miniature) si dimostra più proprio che si può le già scritte cose di Siena e la verace benivolenza verso i poveri della detta nobile città fiorentina».

Con pitture e allora e dopo (come nella cacciata del duca d'Atene, nella defezione di Ridolfo da Camerino, ec. ec.) parlavano al popolo, come sapete, anche quelli che governavano Firenze. E il Biadajuolo ne fa testimonianza nell'altro episodio che dissi, nell'esposizione cioè d'un fatto di Colle, che leggesi sotto la rubrica di giugno, e ch' io recherò in parte come ultimo saggio d'un libro a più riguardi singolare.

«O ingratissima e insensata Colle di Valdelsa (accozzo per ora alcune frasi staccate) certo, se io mi posso ben raccordare, tu quella Colle se', i cui fondamenti del sangue fiorentinesco s'intrisone (nel difenderla contro Siena); le cui forze co' denari e collo sforzo de' cittadini Fiorentini (dai quali era protetta contro Pisa) sono ite in grandezza, ec.». E tu, par che seguiti a dire il nostro Biadajuolo, a così gran benefizii come ti sei mostrata riconoscente? «Fra le altre tue ingratitudini questa si prova così, che pattovito teco per lo Fiorentino, al tempo della già tanto scritta fame e carestia, 4000 moggia di grano, e promesso per soldi 23 lo stajo fiorentino colmo (pesava lo stajo colmo libbre 50 o così in quel torno di 52) del mese d'aprile 1329, e mandato per esso per li Sei della Biada, falsamente con sopraposte bugie il negasti, dicendo cioè che non avevi tanto che a te bastasse e similianti, abbiendolo tu dato per soldi 4 più lo staio celatamente al Pisano, volpe calognosa. E andarono i pisani somieri carchi alla loro città; e i tuoi amici, ch'erano degni d'averlo in dono, colle loro bestie non cariche tornarono, e colle sacca vote a Firenze, ec.».

Indi, dopo alcune invettive, che il buon Biadajuolo, secondo il vezzo de' tempi, rinforza colla supposta etimologia del nome di Colle di Valdelsa, come altre contro Siena (nell'episodio antecedente) alludendo allo stemma di quella città, prosegue: «Per queste inique malizie ec. mossi i Sei della Biada a grande giustizia formarono, con consentimento de' priori e gonfalonieri e tutto il consilio, una inquisizione gravissima contro il capitano di Colle e tiranno di quella (messer Albizzo di Scolajo de' Tancredi) e messer Desso suo fratello e contra quello comune, e dipignere feciono nelle case dove i detti Sei rendono ragione nel modo che più oltre dipinto vedrete ec.».

Fecero cioè dipinger Colle con due porte, dall' una delle quali (da quella che volge verso Firenze) uscivano bestie colle sacca vote, e dall' altra (da quella che volge verso Pisa ) ne uscivan altre con sacca più grandi e piene. E questa è la pittura che vedesi, come il buon Biadajuolo accennava pocanzi, copiata nel suo libro. Essa non presenta che alcune figure d'asinaj o vetturali che vogliamo chiamarli colle bestie già dette. Però non è da paragonarsi alle due rappresentanti Siena, onde i poveri vengon cacciati, e Firenze ove sono accolti, e molto meno a quella rappresentante la piazza d'Orsammichele piena di gente d'ogni specie, ufiziali della Biada, soldati colle loro insegne, famigli del potestà, venditori, compratori, in abiti e atteggiamenti diversi. Ben può paragonarsi alle prime due per gli edifizi che in essa. si veggono, e direi anche alla terza, se, grazie a quel tabernacolo appoggiato ad un pilastro della Loggia, questa non fosse degna di speciale riguardo, servendo, come osserva il Fineschi, a schiarire un passo malinteso del libro settimo, cap. 154 di Gio. Villani. Se non che, oltre all' essere più conservata dell' altre, anzi freschissima, essa ha il merito di supplire ad un monumento pubblico, il qual fu subito distrutto, ad istanza, come dice il nostro Biadajuolo, degli ambasciadori mandati da Colle a farne le scuse.

«Signori (disser essi, poiché i Sei adirati troncavan loro le parole) ogni persona piccola o grande, a cui parlare non è vietato, può gridare e dire, come a lui pare, e la lingua è sì fatto stromento che rado le si può contastare stando nel suo essere libera, ec.». E dissero assai bene, poiché ascoltati, benché recassero scuse assai magre, pur dando con industria.oratoria tutta la colpa a messer lo capitano e a' suoi, aggiugnendo gran cose della saviezza e potenzia de' signori Sei, e terminando umilmente coll'offerirsi per sempre «essi e il comunello che li mandava (riferisco, quasi senz'altra mutazione che della sintassi, le loro parole), e i signori di quello, a loro in ispezialità obbligati e figliuoli ubbidienti allo comune di Firenze» ottennero ciò che desideravano.

Nulla di così originale potrei trarre da quel poco di storia, che si frammischia al resto del Diario, il qual forse rimane in tronco non pel fatto dell'autore ma del copiatore, come sembra indicare la chiamata a piè dell'ultima pagina. — Nulla anzi di notabile, se non fosse quel passo, ove, sotto la rubrica di novembre del 1330 si narra «il grandissimo diluvio che allagò tutta la città e il piano di Firenze» passo che il Fineschi illustra con un codice dell'archivio a cui era preposto, e alcuni versi della Cronaca di Gio. Villani parafrasata da Antonio Pucci fonditor di campane. Or questi versi mi fanno pensare ai molti, con cui per lo più il nostro Biadajuolo esprime per entro al Diario le sue moralità, e de' quali il Fineschi ha dati più saggi. Non credo che abbiate bisogno di vederli per sapere se più s'accostino a quello che il buon Biadajuolo avea ritenuto dell'episodio dell'Ugolino, oppure a quelli della Parafrasi del buon Fonditore, ch'è l'opera (allora inedita) che il Fineschi cercava, quando gli venne innanzi il Diario e qualch'altro codice ora scomparso, quello fra gli altri, di cui una volta vi feci motto, della Storia del Varchi.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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