Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera quinta

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Non v'è codice sicuramente, il qual meriti d'esser seguito alla cieca; e non v'è codice probabilmente, il qual non vaglia la pena d'essere consultato. Le prove di ciò a voi molto pratico forse più non bisognano. A me non pratico egualmente giova pur quella d'uno de' codici tempiani men riguardevoli, che contiene le due storie di Salustio, volgarizzate dal raccoglitore e volgarizzator famoso degli Ammaestramenti.

I codici riguardevoli di questo volgarizzamento delle due storie, per vero dire, non sono molti. Il citato da' compilatori del Vocabolario e ancor serbato nella Riccardiana; quello della libreria Rinuccini oggi smarrito, ma già trascritto, per ciò che il Mehus ne disse al Cioni, ond'esser pubblicato in Bologna, sembran più celebri che riguardevoli. Se il Salviati, che gli ebbe fra mano , gli avesse trovati meno scorretti, avrebbe forse trovato la lingua del volgarizzamento assai più bella.

Fra i tanti altri codici, che queste librerie ne posseggono, al nostro Cioni, come sapete, parve ragguardevolissimo il laurenziano, già gaddiano, della metà del secolo decimoquarto, a norma del quale principalmente ci diede la sua edizion prima, la fiorentina cioè del 1790. Dopo di questo, lodatogli molto anche dal Mehus, egli non ne trovò alcuno più riguardevole d'un laurenziano più antico, cioè del principio del secolo già detto, e se ne giovò abilmente a correggere la lezione dell'altro, sebbene in generale più corretta.

Quand'egli studiava intorno a questi codici non erano ancora, per quel che sembra, nella Laurenziana i due del principio del secolo decimoquinto, de' quali un bravissimo giovane, che avrete qui conosciuto, ha fatto grand'uso per la seconda edizione; quella di Napoli del 1827. Anch'essi veramente (e ve n'avvedrete al confronto delle due edizioni) posson dirsi assai riguardevoli. Dubito però, se il Cioni, abbattendosi in essi, avrebbe voluto preferirli in tutto ai due, ch'ebbe tante ragioni di preferire agli altri da lui conosciuti.

Però non saprei dolermi quanto uno de' nostri amici, che il Silvestri di Milano, dandoci nel 28 la terza edizione, ch'ei credette seconda, abbia dovuto seguir la prima, ch'ei credette unica. Alcune varianti, tratte dai due codici laurenziani meno antichi, sono preziose anzi necessarie. II confronto del volgarizzamento col testo, già cominciato dal Salvini, come provano le sue postille al codice che già usarono i compilatori del Vocabolario, poi fatto per intero dal Cioni, e rifatto con nuova diligenza dall'editor napoletano, le rendeva desiderabili. Altre sono da aggiungersi (ciò che il nostro Manuzzi ha cominciato a fare) ai nuovi modi e vocaboli, che il Cioni già raccolse dal volgarizzamento, e il Cesari accolse nel suo Vocabolario ampliato. Tutte o quasi tutte infine son da mettersi in nota o da registrarsi in elenco; ciò che spero abbia fatto chi ci diede pocanzi in Milano la quarta edizione da me non veduta. Non però tutte, parmi, son da sostituirsi alle vecchie, talora egualmente belle, talora meno belle ma forse più genuine. Io non dubito menomamente della fedeltà di chi ha raccolto per l'editor napoletano le varianti de' due nuovi codici. Dubito non poco della fedeltà di chi trasportò in questi codici il volgarizzamento da altri più antichi.

Alcune varianti parrebbero genuine, se il volgarizzamento fosse almeno del tempo che il Salviati, non conoscendone l'autore, avea supposto. Ma il Cioni, scoprendone 1'autore, grazie ad un ricordo del codice da lui seguito, mostrò che il volgarizzamento è anteriore di mezzo secolo. Dice quel ricordo, il qual ora si legge in fronte al proemio nelle varie edizioni, che il volgarizzamento fu fatto da Bartolommeo di S. Concordio a petizione del Nero Cambi di Firenze. Ora il Nero Cambi, manritta di Geri degli Spini (pel quale furon volgarizzati gli Ammaestramenti), dopo essere stato suo agente politico insieme e finanziero presso Bonifazio VIII, ebbe con lui e con Corso Donati la signoria di Firenze nell'aprile del 1302, quando furono cacciati i Cerchi e tutta la parte bianca. Nulla di più probabile, pensa il Cioni, che verso quel tempo appunto ei chiedesse il volgarizzamento delle due storie, 1'una delle quali in ispecie avea tanta relazione colle cose che qui allora avvenivano.

Checchè sia di ciò, la lingua del volgarizzamento è la lingua del tempo di Dante, non di quello del Boccaccio. E, se il Salviati non avesse trovata sì bella la lingua negli Ammaestramenti, potrebbe sospettarsi che, solo per essere un po' diversa da quella che usa il suo Boccaccio, gli fosse sembrata men bella la lingua di questo volgarizzamento. Ma già dissi come di ciò forse han molta colpa i codici ch'egli vide. Un altro po' di colpa 1'hanno i latinismi; troppo contrarj (osserva il Fuoti nella nuova vita di Bartolommeo premessa all'edizion napoletana) a quel pretto fiorentinismo ch'ei professava, e ond'è ch'ei disse il volgarizzamento affogato nella pedanteria. Questi latinismi, intanto, poteano essi pure essergli indizio di molta antichità. E forse per essi in ispecie il volgarizzamento fu già attribuito, come intendo oggi per la prima volta, al maestro di Dante. Ciò mi fa sapere il buon Manuzzi, tornato pocanzi di Roma con bei tesori di lingua raccolti in quelle Biblioteche, l'Albero della Croce secondo un codice della Chigiana, il qual conferma quasi tutte le correzioni fatte dal Zanotti col riscontro del latino; più cose inedite di Feo Belcari tratte da un codice della Vallicelliana, ec. ec., che presto pubblicherà. Nella Chigiana ei si avvenne pure in un codice non meno bello che antico (anteriore senza dubbio al 400) del nostro volgarizzamento, e nel risgnardo al frontespizio vi trovò scritto di mano d'Alessandro VII, come il Fea gli accertò, un breve ricordo, che dice potersi credere il volgarizzamento attribuito a ser Brunetto. Or non poche delle varianti de' due codici seguiti dall'editor napoletano, anzichè farci pensare a ser Brunetto o a' suoi contemporanei, ci fan pensare piuttosto al Belcari nominato dianzi o a quelli che di poco il precedettero.

Che se i due codici son veramente del principio del secolo decimoquinto, il tempiano, di cui non vi dirò che due parole, è più moderno quasi di mezzo secolo. Lo è almeno nella sua seconda metà, il Catilinario che qui vien dopo ed è d'altra mano che il Giugurtino, e dicesi finito di copiare il primo novembre 1450. Il Giugurtino, ch'è di 95 pagine non numerate e seguite da 5 bianche, parrebbe, alla forma de' caratteri, a tratteggi di vario colore che adornano le grandi iniziali, ec. ec., copiato con certa cura. Ma se lo è con maggior cura che il Catilinario, il quale ha 45 pagine di carattere assai men buono, con tratteggi più semplici e di solo color rosso, ec., non lo è con maggiore perizia. E nondimeno tutto il codice (piccol foglio cartaceo, appartenuto per successione a varii del casato de' Benci) costò, giusta un ricordo che vi si legge, fiorini 4 e lire 10 al primo compratore, il qual poi lo fece rilegare d'assi e cuojo pagonazzo (noto queste particolarìtà per divertirvi) chè prima non stava così.

Io avrei voluto aver gli occhi di qualcuno di que' Benci per leggervi più a lungo che non ho fatto. Vi ho però letto abbastanza per convincermi di quello ch'io vi diceva a principio, che non v'ha codice, forse, il qual non vaglia la pena d'essere consultato. Più correzioni, infatti, proposte dal Cioni col riscontro del latino, lo schifasse per esempio (aspernabatur) invece dello schivasse nel primo del Catilinario; lo sconsigliatamente nel vigesimonono del Catilinario medesimo (inconsulte ) invece del somigliantemente; — più varianti adottate, anch'esse col riscontro del latino, dall'editor di Napoli, per esempio il non si potea attutare né mancare invece dell'alterare né mancare (mal corrispondente al neque prius sedari etc.) nel primo del Giugurtino, si trovan nel codice, di cui vi parlo, benchè scorrettissimo.

Or vengo ad un codice de' più corretti, e non solo de' più corretti ma de' più eleganti, e non solo de' più eleganti, ma de' più rari, anzi da me fin quasi a jeri stimato unico in sua specie. Anch'esso contiene il volgarizzamento d'opera latina classicissima, le Tusculane da voi tanto ammirate, fatto nell'aureo secolo di nostra lìngua, non so dirvi da chi, ma certo da scrittore poco men valante di quelle che volgarizzò le storic di Salustio. E questo volgarizzamento fa pure, corne l'altro delle due storie, citato da' compilatori del Vocabolario, or non rammento bene su che codice, ma parmi di casa Ubaldini. Prima pero che fosse citato fu pubblicato, benchè con qualche travisamento; ne alcuno per più secoli seppe sospettar nella stampa il volgarizzamento citato о nel citato quel della stampa. Alfine, quando il gospetto nacque, il codice che ho detto già era smarrito, ne altro poté rinveninsene da fare un confronto. Se non che poi quando mi venne innanzi il tempiano, ch'io dovea creder unico, ad altri ne venne innanzi uno barberiniano (habent sua fata libelli); e i confronti fatti mercè di essi рossn servirsi di prova reciproca.

Il solo volgarizzamento che si avesse in istampa prima di quello del Napione era, gia lo sapete, quello che ne pubblicò in Venezia Fausto da Longiano nel 1544 presse il Valgrisio. Fausto, pubblicandolo, per far piacere, com'ei s'esprime, ad un signore spagnuolo, il dichiarò (nella sua dedicatoria al Pallavicino marchese di Cortemaggiore) opera d'un gentiluomo fiorentino qua e là ritoccata. Ma il Paitoni nella sua Biblioteca de' Traduttori, о mettesse fuori un'opinion nuova, о ne riproducesse una già vecchia, lo attribuì per intero a lui medesimo. Ora il Napione, ragionando di ciò col Priocca suo amico nella lettera proemiale al suo nuovo volgarizzamento, si mostrò molto perplesso. Fausto, egli pensò, ove stiamo al ritratto che ce ne fa il Tiraboschi, era uomo da dar piutcosto per sua l'opera altrui che per altrui la prupria. Quel ch'egli valesse in opera di traduzioni m'è ignoto; ma, se stiamo alle parole del Muzio, egli non s'intendea di volgare più che di latino, e pero védete voi s'era uomo da tradurre le Tusculane.

E il Muzio, i cni giudizü in generale non son forse più giusti che benevoli, certo non giudicò male di Fausto. Pur Fausto, che non temeva quel che potesse dirsi di lui, tradusse le Familiari dall'autor delle Tusculane, e, dedicandole ad un Farnese arcivescovo di Nitpoli, promise fra cento cose di dar tradotte tutte l'altr'opere dell'autor medesimo. Di qui forse 1'opinion del Paitoni o d' altri, che per avventura la manifestarono assai prima di luí. Opinion troppo assurda, però, e da non potersi concepire dopo aver veduto alcun poco di quel grande assassinio delle Familiari, e poi guardato al volgarizzamento delle Tusculane.

Il Napione, non avendo veduto di Fausto che la dedicatoria già detta di questo volganzzamento, avvertì che la lingua dell'uno gli pareva un po' diversa da quella dell'altro, grazie specialmente a certi arcaismi, a certi modi proprii soltanto a quei buoni barbogi che si chiaman gli autori del buon secolo. Colla quale avvertenza, se non si mostrò quel finissimo intelligente, che da alcuni venne reputato, si mostrò pure assai più intelligente di Fausto, il quale non dubitò l'attribuire il volgarizzamento ad un contemporaneo anzi ad un vívente, a cui fece scusa d'averglielo così un po' racconcio e dato al pubblico.

Avventuroso però quest'errore di Fausto! Chi sa da qual altro assassinio esso ha salvate il povero volgarizzamento? Al quale, sia lode al vero, è pur rimasto nella stampa assai più che non bastasse dell'antiche sembianze per far pensare al Napione, e quindi bramar d'accertarsi, che fosse una cosa medesima col volgarizzamento citato. Ma io, scriveva egli al Priocca (da una sua villa presso Torino) ho avuto troppa faccenda a procurarmi il volgarizzamento in istampa, perché speri, senza far viaggi, di veder l'altro. Un antico volgarizzamento manoscritto, mi avvisa il Vernazza, era una volta nella private libreria del duca nostro Carlo III di Savoja. Ma chi sа oggi ov'è ito, o s' era, com'io suppongo, conforme al citato! In Firenze, però, o in uno o in altro codice, questo non dovrebb'essere impossibile a rítrovarsi, e qualche erudito potrebbe farne confronto con quello ch'è a stampa.

Ed ecco il Priocca, il qual stava in Toscane, udito il desiderio dell'amico, metter qui in moto altri amici suoi, il Puccini, il Poggiali, ec., per veder se il citato si ritrovasse. Ma il citato era allora scomparso dagli occhi di tutti, di che il Priocca si dolse non poco al Napione nella rigposta che segué la proemiale già detta al nuovo volgarizzamento. Venticinqu'anni dopo, al fine, ecco il citato presentarmisi in uno de' più bei codici tempiani; piccol foglio in pergamena di 180 carte (una delle quali sgraziatamente strappata e tre bianche), scritto, parmi, intorno alla metà del secolo decimoquinto, in carattere nitidissimo, colle grandi iniziali miniate, ove l'oro ancor lampeggia e i colorí son rugiadosi. Leggerlo in sì bel codice era piacevole non che facile; confrontarlo collo stampato era assai naturale. Ma io quasi non avea d'uopo di confronto, per esser certo di ciò che al Napione già parve probabile. Ben lo avea per esserlo, che le mutazioni fatte nella stampa non fossero, come Fausto asserì, che di clausolette e paroluccie. Ad accertarne gli altri non sono però il primo, qual io mi credeva di dover essere; e n'ho compenso nel piacere di non trovarmi solo. Il buon Manuzzi, venuto a vedermi in ottobre prima di partire per Roma, vide il mio confronto e ne seppe i risultati. Giunto a Roma, e pensando annunciarli come una novità al bibliotecario della Barberiniana suo amico, udì che i medesimi risultati egli aveva avuto pur dianzi da simile confronto, grazie ad un bel codice cartaceo di quella libreria, contemporaneo al tempiano, benchè un po' men conservato. Quindi, tornando, mi portò una Notizia intorno a quel codice, inserita dall'amico suo in uno degli ultimi quaderni dell'Arcadico, e corredata d'alcuni saggi del volgarizzamento secondo il codice medesimo coi riscontri della stampa.

Dopo ciò il recarvi altri saggi secondo il tempiano, perchè vediate se il volgarizzamento in istampa sia veramente, salve poche differenze, lo stesso che il citato, parmi più che superfluo. Perchè giudichiate se questo volgarizzamento, la cui stampa d'altronde è assai rara, meriti d' esser riprodotto a norma de' due codici, forse non è superfluo del tutto.

Quel che vagliano in generale i volgarizzamenti del trecento, il Giordani l'ha detto troppo bene; e voi, lo so, vi tenete col Giordani. Il Napione, con cui tiensi qualch'altro, non solo nega loro, come ad opere di grandi ignoranti, quella precision ch'è impossibile senza una perfetta intelligenza del testo, ma nega pure ogni regolatezza, ogni leggiadrìa. Quindi il volgarizzamento pubblicato da Fausto sia pure, egli dice, il volgarizzamento di quel secolo che chiamasi d'oro: esso non mi ha punto sgomentato dall'imprenderne un nuovo. E il Priocca, siccome potete aspettarvi, gli fa gran plauso, e aggiugne che quel volgarizzamento non meritava pure d'esser ricordato; che, dopo il nuovo specialmente, deve starsi più che mai sepolto in quelle vecchie raccolte a cui il Bettinelli dava nome di cimiteri, ec. ec. Or prima che la sentenza sembri senza appello, ci sia lecito l'esaminare un poco quanto sia fondata.

Il bibliotecario barberiniano non è, co' saggi del volgarizzamento secondo il suo codice, uscito dal proemio; io co' miei, che saranno anche più brevi, non uscirò da' primi capitoli del primo libro. In uno di essi (nel secondo) l'autor delle Tusculane, Marco, qual ivi si chiama, vuol provare al suo interlocutore, sia egli Attico, sia altri della scuola d'Epicuro, ch'ei si contradice chiamando miseri quelli che più non vivono. Ei gli ha chiesto scherzando se li chiami tali per timore del Cerbero, per orror del Cocito, ec ec. E l'interlocutore ha risposto che si ride del Cerbero e del Cocito; che sa benissimo che i morti non son più nulla, e che appunto perchè non sono più nulla li chiama miseri. Jam mallemi Cerberum metueres etc. etc. dice allora il buon Marco, e il dialogo seguita fra il lepido e il serio e si fa sempre più stringente. Eccolo nel volgarizzamento secondo il codice tempiano, ch'è inutile ch' io qui confronti colla stampa:

«M. Io al presente vorrei piuttosto che tu temessi Cerbero, che tu dicessi queste cosa così inconsideratamente. A. Or che ei è? M. Colui, il quale tu nieghi essere, quel medesimo affermi. Or dove la sottigliezza tua? Imperocchè tu di' esser misero colui il quale tu affermi niente essere. A. Io non sono di così poco intelletto che questo io dica. M. Or che di' tu adunque? A. Dico che misero è (acciò che tu m'intenda) Marco Crasso, il quale per la morte lasciò la potenzia e ricchezza sua; misero è Gneo Pompeo, il quale è privato di tanta degnità e di tanta gloria; e finalmente tutti coloro sono miseri, i quali di tanta luce mancano. M. Tu ti rivolgi a quello medesimo. E' conviene che eglino sieno se essi sono miseri. Ma tu poco innanzi negavi che coloro fussino i quali erano morti. Se adunque eglino non sono, essi niente possono essere, e così essi non sono miseri. A. Io non dico forse ancora il parere mio. Imperocchè cotesto non essere, essendo tu già stato, stimo essere molto misero. M. Or che cosa è più misera che in tutto non essere mai stato? E così coloro, i quali ancora non sono nati, sono già miseri perchè essi non sono. E noi medesimi, se noi dopo la morte abbiamo a essere miseri, innanzi che noi nascessimo miseri fummo. Ma io non mi ricordo che innanzi che io nascessi io fussi misero: se tu se' di migliore memoria, voglio che mi faccia sapere quello che di te tu ti ricordi. A. Tu motteggi in modo, come se io dicessi che coloro sono miseri i quali non sono nati, e non miseri coloro i quali sono morti. M. Adunque tu di' che eglino sono. A. Anzi perchè eglino non sono, conciosiacosachè eglino furono, li chiamo miseri. M. Or non vedi tu che tu parli cose le quali si ripugnano? ec. ec.».

Quanto di ciceroniano, non ostanti una o due frasi men precise, trovisi in questo passo, non ho bisogno di dirlo a voi. In altri passi il pensiero dell'originale è più volte mal interpretato, la sintassi è impacciata ec., il che forse mai non accade nel volgarizzamento moderno. Pur l'indole dell'originale, s'io non m'inganno, è in essi troppo meglio serbata che in questo. «Le parole e '1 modo volgare non rispondono in tutto alla lettera, scrivea nel suo proemio l'antico volgarizzator di Sallustio; anzi conviene ispesse fiate d'una parola per lettera dirne più in volgare, e non saranno però così proprie». Pur come nel trecento si usavano parole e maniere proprissime, ne veniva a' volgarizzamenti, come all'altre scritture di quel tempo, e brevità e leggiadria oggi insolita. L'oro, se così posso esprìmermi, ci era allora dato in oro, non in altro metallo di maggior volume e di minor valore, come ne' volgarizzamenti moderni. Il metallo del nuovo volgarizzamento delle Tusculane sarà, se vogliamo, argento puro, ma tien troppo luogo in paragone dell'oro dell' antico, e non ha pur una delle sue scintille. Ne' passi specialmente di stretto dialogo, come il corrispondente al recatovi qui sopra, ciò riesce evidentissimo. Ne' passi, ove il dialogo s'accosta all'oratoria, ciò parrà forse meno evidente, ma per me lo è del pari. Anche di questa specie di dialogo, qual ci si presenta nel volgarizzamento antico, eccovi un saggio tratto da quel capitolo eloquentissimo (il quarto del libro già detto) ove parlasi dell'immortalità secondo la sentenza di Platone, ch' è pur quella dell'autor delle Tusculane.

«Che stimiamo noi che pensassino questi tanti e sì grandi uomini morti per la repubblica? Che col medesimo fine terminasse il nome loro che la vita? Nessuno mai senza grande speranza d'immortalità si offerrebbe per la patria alla morte. Fu lecito a Temistocle essere ozioso, fue lecito a Epaminonda, fue lecito, acciocchè io non ricerchi le cose antiche e forestiere, a me. Ma io non so come nelle menti s'accosta (inhaeret) quasi un certo augurio de' secoli futuri. E questo ne' grandissimi ed altissimi animi, e massimamente (qui manca il volgare dell'existit) e facilissimamente apparisce. La qual cosa tolta, chi sarebbe tanto stolto che nelle fatiche e ne' pericoli sempre vivesse?».

Già vi sarete avveduto che nel trascrivere tengo, per rispetto all'ortografia, quella strada di mezzo che il nostro Benci, ne' suoi discorsi proemiali al Malispini e al Compagni, disapprova fortemente, ma ch'egli stesso nel testo di quegli storici è pur costretto il più delle volte a tenere. L' ortografia del codice, da cui trascrivo, è ad un dipresso quella che vedete ne' volgarizzamenti di ser Brunetto stampati in Lione nel 1568 con note del Corbinelli, il qual volle darceli quai li trovò in un antico manoscritto mandatogli da un Pusterla di Mantova. Quindi penso che il codice sia copia esatta d'altro molto anteriore, se non forse in certe desinenze delle prime persone plurali dell'indicativo de' verbi, che veggo usate verso il cinquecento e più innanzi (corne nelle Nozze di Cosimo descritte dal Giambullari e stam. dal Giunta) e dubito che il fossero nel trecento. Volendo render leggibile quel che trascrivo, e serbargli pure quant'è possibile l'antica sembianza , ho dovuto tener la via che vedete.

Che se non vi sembrasse la buona, ormai non ne avrete altro disagio ehe per un altro breve passo (del quinto capitolo) necessario a mostrare, quanto l'antico volgarizzamento abbia pur d'armonía e di magnifícenza ciceroniana. Il più gran piacere d'esseri, come noi, intelligenti (leggesi anteriormente al passo che son per trascrivervi) sarà senza dubbio, poichè fian sciolti dal carcere corporeo, la libera contemplazione del vero; e il piacere sarà grandissimo specialmente per coloro «i qnali, allora ancora quando, queste terre abitanti, erano d'oscurità circonfusi, nientedimeno per sottigliezza di mente cognoscere desideravano». Or leggete questo poco di resto, e ditemí se non ha di che far meravigliare anche il nostro Giordani.

«Imperocchè se coloro stimano alcuna cosa conseguire (aliquid assequi se putant) i quali hanno veduto l'entrata del mare di Ponto, e questi stretti pe' quali passò quella nave, nominata Argo, perché gli argivi uomini eletti in quella portati addomandavano (petebant) la pelle del montone dell'oro; ovvero coloro i quali videro i fervidi stretti del mare Oceano, dove la rapida onda l'Africa dall'Europa divide (Europam Lybiamque тарах ubi dividit unda); che risguardo finalmente (quod tandem spectaculum) stimiamo noi dovere essere, quando lecito ci sагà tutta la terra insieme vedere, e di lei riguardare sì il sito e la figura e la circumferenzia, sì le regioni abitabili, e per contrario quelle le quali per la forza del caldo o del freddo mancano d'ogni colto, еc. еc.».

Io non во quello che l'Alfieri avrà detto al primo venirgli innanzi l'antico volgarizzamento delle storie di Salustio, pubblicato qui mentr'egli era in Francia. Ma le sue opinioni sulla lingua del trecento son note abbastanza. E il suo stesso volgarizzamento, fatto nel 1775 , rifatto fra l'85 e il 91, poi qui rifatto di nuovo nel 93, può riguardarsi come la più gran lode di quell'antico. Il volgarizzamento novello delle Tusculane, fatto dal Napioue, spiega com'egli per l'antico non sentisse che disprezzo.

Ma conviene ch'io tronchi questo discorso, per far luogo a due altre parole intorno ad un terzo codice contenente uu terzo volgarizzamento, se non d'opera classica, pur classico esso stesso, poiclie fatto anch'esso nel buon secólo e citato dai compilatori del Vocabolario. È il meno antico de' tre antichi volgarizzamcnti toscani della Guerra Trojana di Guido Giudice, la qual fu volgarizzata innanzi a tutti da Binduccio dello Scelto di Siena sopra una versione o parafrasi francese, poi da Giovanni Bellebuoni di Pistoia sopra il testo latino, poi sul testo medesimo da Filippo Ceffi di Firenze, che forse ebbe innanzi agli occhi il volgarizzamento del Bellebuoni.

Più codici si conoscono di questi tre volgarizzameuti e del terzo in ispecie, per tacer d'altri in veneziano puro, in veneziano italianizzato ec., de' quali tutti diede bastante notizia i! nostro Benci in un'appendice alla sua Lettera al Biondi (v. il N.° 54 dell'Antologia) intorno alle Dicerie e all'altre cose del Ceffi. I due volgarizzamcnti più antichi sono tuttavia inediti; il terzo, stimato migliore, fu impresso due volte, la prima in Venezia nel 1481 da Antonio d'Alessandria della Paglia, la seconda in Napoli dagli Accademici della Fucina nel 1665, a norma d'un codice palatino di Firenze, di cui non ho saputo trovar traccia. Quegli Accademici (e dopo di loro anche il Fontanini, il qual poi si ricredette) non dubitarono d'attribuirlo a Guido stesso, cui fecer così uno de' primi a scrivere in prosa volgare, come lo fu a dire in rima. Ne s'avvidero, osserva il Benci, della contradizione in cui cadevano, recando ad un tempo una nota, ove il volgarizzatore si dichiara contemporaneo di Gio. Villani. Il Benvoglienti nelle sue Osservazioni sulla lingua, che trovansi nella raccolta del Frediani, avendo forse in qualche codice letto il solo cognome del volgarizzator vero, e credutolo nome, volle ehe fosse Ceffo Venturi. Ma il Bandini trovò in un codice mutilo laurenziano, e notò quindi nel suo Catalogo, che il volgarizzator vero è quello che già dissi. E trovò pure, benchè poi nel Catalogo, come il Benci ha osservato, sbagliasse una cifra, che il volgarizzamento fu fatto nel 1324; ció che si conferma da un codice mutilo magliabechiano che ho veduto.

A quanto il Benci ha già detto de' codici di questo volgarizzamento non mi resta da aggiugnere sе non la notizia dataci pocanzi dal Gamba d'un bel codice del secolo decimoquinto, posseduto dal baron Rossetti di Trieste, e la particolarità di due codici magliabechiani assai posteriori, I' uno de' quali, giusta un ricordo postovi dal dotto bibliotecario Follini, varia non poco, e non nelle parole soltanto, dalla lezion comune, l'altro ha una piccoJa giunta fattavi da un Antonio Maucini nel 1445.

Con questi due codici può mettersi il tempiano, piccol foglio cartaceo di 96 carte non numerate, ossia di 165 pagine a doppia colonna e il resto bianche, senza titolo d'opera, senza titolo di capitoli, scritto, parmi, verso la metà del secólo decimoquinto, difficilissimo a leggersi, poco importante forse a riscontrarsi per migliorar la lezione della stampa, ma importantissimo per altri riguardi. Poichè anch'esso, nella sua seconda metà, varia non poco, benchè meno del magliabechiano che già si disse, dalla lezione degli altri; ed ha in fine una giunta, troppo più antica e più notabilc di quelle dcll'altro codice magliabechiano già indicato. Essa infatti comprende in 14 pagine lutta la storia d'Enea, scritta , come Dante s'esprimerebbe, ed ivi pur dicesi con più parole, pensando all'alto effetto ch'uscir dovea di lui; è similissima per locuzioni, sia essa originale, sia tradotta, al volgarizzamento del Ceffi, e però degna d'accompagnarlo nella nuova edizione che ne prepara il nostro segretario della Crusca.

La qual edizione, assai desiderata per la rarità delle due altre, mi si rende ancor più desiderabile per quello che ho veduto de' codici. L'edizion principe, oltre all'essere assai poco corretta, apparisce spesso al confronto una specie d'abbreviazione, e fa sospettare che chi la fece, trovando ne' codici moltr difficolta, non tanto cercasse di vincerle come d'evitarle. L'edizion seconda non restringe il dettuto, ma poco il migliora, come quella ch'è fatta sopra un sol codice, quando la critica più sagace avrebbe pur avuto d'uopo di molti. Fra i molti intanto il nostro segretario, o chi con lui pensó dapprima ad una terza edizione (quegli che ci diede nel 16 le Rime di Guitton d'Arezzo) ne prescelse uno riccardiano del secolo decimoquarto inoltrato, col perpetuo riscontro d'un altro pur riccardiano un poco anteriore. E questi codici son veramente i più belli, come sono i più antichi, cbe qui si abbiano del volgarizzamento del Ceffi. Non però sono tali, parmi, cbe dispensino dal riscontro d'altri, benchè non degni in generale d'esser seguiti. Anche in essi, per dirvene una, m'è avvenuto di trovare quel famoso adornamento di silenzio, traduzione inintelligibile d'un bizzarrissimo testo (sopita taciturnitate), che forse fu tradotto addormentamento di silenzio o addormentato silenzio. Nessun codice, ch'io sappia, conferma alcuna di queste due lezioni che la critica potrebbe proporre. Pure il tempiano, sopprimendo l'articolo innanzi a sílenzio, non ripugna affatto alla seconda, sicchè quasi mi nascerebbe speranza, che potesse pure esser utile per altro che per la giunta, che sopra vi ho lodata.

Non debbo chiuder la lettera senza dirvi d'un'altra giunta più piccola, estranea affatto al volgarizzamento del Ceffi, e per sе stessa di pochissima importanza, ma per un ricordo che la precede anch'essa buona a ricordarsi. La giunta consiste nel primo di que' veuni sermoni attribuiti a S. Agostino, volgarizzati anch'essi in tempi buoni della lingua, stampati qui due volte sulla fine del secolo decimoquinto, poi una terza per cura del Manni nel 1731, e alfin ristampati in Bologna nel 1818 in una raccolta d'opere del medesimo genere. Secondo una frase del Catalogo del Gamba (ultima edizione) par che si dubiti ancora se il volgarizzatore sia veramente Agostino da Scarperia. Secondo il ricordo ch'io accennava, e che sebbene di mano differente (come il sermone già detto) da quella del volgarizzamento del Ceffi, pur sembra molto antico, ciò dovrebbe ormai porsi fuori di dubbio.

Tutte queste notizie, lo veggo, non vaglion per vostra sodisfazione quelle ch'io potrei darvi del buon andamento della scuola di geometria per gli artigiani, che il nostro marchese Tempi ha istituita, e della quale ha ragione di compiacersi più che de' suoi codici. Pur anch'esse debbono gradirvi come specie di legami fra la nostra antica civiltà e la nuova, che molto perderebbe perdendosi le antiche memorie, o disprezzandosi quelle relative agli studi della lingua, de' quali nessuna civiltà può far senza.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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