Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera sesta

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Vi si parla della “Storia generale”


 

Volete voi vedere un codice, scritto ove forse furono trovati alcuni de' più bei codici tempiani? — Ove intendete voi? chiesi a vicenda all'amico. il quale, non è più di due mesi, mi volgeva queste parole. — Nella villa del Barone, com'è notato nel codice stesso, a quel che mi dice il cav. Gio. Fabio Uguccioni, che lo possede, e vi aspetta a vederlo. — Andiamo.

Io non so se vi rammentiate della prima di queste mie lettere, che vi ho scritto finora a si lunghi intervalli. Rammentandovene, vi è facile immaginarvi con che ansietà e con che speranza ho corso la via fino al palazzetto dalla bella facciata, che si vuol di Raffaello, e guarda il lato più severo del vecchio palazzo d'Arnolfo.

Il codice, che trovasi in questo palazzetto, per lo meno fin da' giorni del senator Giovanni Uguccioni, avo dell'attual possessore, è in gran foglio, di 471 carte numerate e 41 non numerate, con una piccola appendice di cui poi vi dirò. È scritto da mani diverse, talvolta d'assai bel carattere, sempre di carattere leggibilissimo, con giunterelle marginali e correzioni tra verso e verso, che solo al primo guardarle si fan credere di mano dell'autore. Questa mano mi pareva e non mi pareva di riconoscerla. Avea veduto qualcosa di simile in un codicetto riccardiano, ma d'un simile troppo più accurato che quasi potrebbe sembrar diverso. Però ebbi d'uopo di leggere alcun poco, per sapere s'io avessi alla mia speranza altro fondamento che il mio desiderio.

Lessi, credo, cinque o sei minuti, balzai dalla seggiola e gridai: l'ho trovata! — Che cosa dunque? mi chiesero l'amico e il possessor cortese del codice ch'eran presenti. — La storia, di cui la prima parte del primo de' codici tempiani da me illustrati mi diede indizio; che un dotto m'accertò in seguito d'aver veduta, ma ch'io, avendo chiesto indarno chi la possedesse, non sperava mai più di vedere; la men bella forse, ma forse la più curiosa delle storie scritte nel secolo decimosesto; la storia insomma di Giangirolamo De Rossi.

Io diceva ciò con piena sicurezza, poichè il pochissimo, che allor ne lessi, corrispondeva esattamente a quel che ne avea letto nella prima parte accennata del primo de' codici tempiani, la qual si compone quasi tutta, come poi ho veduto, di frammenti della storia medesima. Ad assicurar pienamente il possessore e l'amico, già assicurati abbastanza dal solo pensiero che la villa, ove la storia fu scritta, ed ove si trova in questo momento il march. Tempi, fu già del De Rossi, e vie più assicurati forse da altre cose che lor ridissi di quelle già dette a voi nella prima mia lettera, mi si presentò opportuna nel bel mezzo dell'appendice pur sopra accennata una lettera con questa soprascritta «A Monsignor Illustrissimo e Reverendissimo il Vescovo di Pavia». Ma anche di essa vi dirò in seguito, quando vi dirò dell'appendice, dopo cioè avervi parlato alcun poco della storia, a cui ho potuto dare pur dianzi sette o otto giorni di lettura.

Il dotto, che la vide assai prima di me, nè potè dargliene altrettanti, mi disse, s'io ben mi rammento, che, sul principio almeno, gli pareva scritta in opposizione a quella del Guicciardini. A me più spesso, e sul principio, e poi in seguito, è sembrata scritta in opposizione a quella del Giovio, colla quale si estende a' tempi a cui l'altra non perviene.

Essa è distribuita, se distribuzione può dirsi una material divisione, in sette libri o capi, ne' due primi de' quali si toccano sommariamente le cose occorse a' tempi d'Alessandro sesto, di Pio terzo, di Giulio secondo, di Leon decimo, d'Adriano sesto, di Clemente settimo e un po' più innanzi, cioè dal 1494, circa, al 1547; ne' cinque seguenti si narrano largamente le avvenute o almen parte delle avvenute a' tempi di Paolo terzo, di Giulio terzo, di Marcello secondo, di Paolo quarto, di Pio quarto, dal 1547, circa, al 1562. I primi due, per vero dire, non sono così un sommario storico, che pur non sieno talvolta un supplemento alle storie che da altri già si erano scritte. I seguenti, in cui abbiamo la storia, che l'autore, per ubbidir, com'ei dice, a chi potea comandargli, si propose particolarmente di scrivere, lo sono anche a varie che si scrissero dappoi.

Un autore, che si propose di scrivere per ubbidire a chi potea comandargli, fa naturalmente dubitare se scrivesse o potesse scrivere con quella libertà che gli era necessaria per servire al vero. Da chi gli fosse comandato di scrivere nol so; ma guardando al luogo ove scrisse, alla principale delle sue aderenze nel paese a cui quel luogo appartiene ec., debbo credere che gli fosse comandato da chi per sua bocca il comandò pure al Varchi suo amico. Ora se non fu impossibile al Varchi scrivere con libertà, perchè lo sarà stato al nostro autore? Era nell'animo e nell'ingegno del Varchi molta elevatezza e molta dignità. Avea l'autor nostro dalla natura molta franchezza, e dalla fortuna ciò che pur giova ad accrescerla. Finchè durarono in lui le speranze dell'ambizione, queste avrebber forse potuto renderlo meno franco. Ma ciò, che avrebber forse potuto le speranze dell'ambizione, nol potean certo i timori della servilità. Un timore per avventura la assalse, che, scrivendo liberamente, la sua storia non fosse pubblicata che tardi, come avvenne appunto a quella del Varchi, o nol fosse a prima giunta che mutila, com'ei si lagna che avvenisse a quella del Guicciardini. Se questo timore nol distoglieva affatto dallo scrivere, ei dovea pur dire, come disse a se stesso, «sforzerommi di narrare il vero, seguane poi quello che vuole».

Ma a narrare il vero convien non pure esser sciolto da le passioni onde il narrarlo è impedito, ma molto più da quelle ond'è impedito il vederlo. Ora l'autor nostro, grandemente offeso da alcuni, grandemente accarezzato da altri, agitato da varie cause d'odio e d'amore, potè egli e dall'uno e dall'alto tenersi sciolto abbastanza? — Al tempo di quelle sue ambizioni, ch'io diceva, negli anni in cui le cause dell'amore e dell'odio eran tutte vive e presenti, egli sicuramente non l'avrebbe potuto. Più tardi, quando queste cause erano ormai tutte o spente o lontane, forse il potè. E biasimando quelli che non solo «per tema o per utile» ma altresì «per vendicarsi o per adulare» scrivono «quelle cose che veramente non sono» par ch'egli si sentisse ormai in quello stato che gli concedeva di fare altrimenti.

Ch'egli non imprese a scrivere la sua storia prima del 1557 (cinquantesimo terzo o quarto dell'età sua) allorchè, dopo lunghe agitazioni, riposando in Firenze, trovatasi, com'ei narra, per grande straripamento dell'Arno la casa occupata dall'acque, si ridusse nella sua villa, che sapete, là al piè della montagna fra Pistoja e Prato. E veramente quella solitudine gli era neccessaria per richiamare alla memoria tante cose udite o vedute, e delle quali, mai non pensando che dovessero un giorno essergli materia di storia, non avea preso alcun ricordo. Che pensandolo, in quell'ozio ingrato ch'ebbe in Castel Sant'Angelo comune col Cellini, o in quello un po' meno ingrato ch'ebbe poi in Città di Castello e altrove, avrebbe in parte potuto apparecchiarle, e in ozio più lieto applicarsi poi quant'era d'uopo allo studio della composizione.

E l'unità, a cui mirò cominciando, mostra abbastanza, parmi, che la composizione gli stava a cuore. Poichè, richiesto di scrivere la storia di quelle cose, di cui egli medesimo in qualche modo fu testimonio, volle prenderla più d'alto, cioè dalla pace interrotta, da quello ch'ei chiama tempo ingiurioso e fatale alla misera Italia anzi all'Europa ed al mondo, per condurla fino alla pace mal restituita e gravida di nuove guerre e di nuove sciagure. Se non che, scrivendo nell'atto stesso di richiamare alla memoria (o di raccogliere, ove la memoria non gli bastasse, dal portafoglio degli amici) le cose necessarie alla sua storia, appena potè inserirvele con cert'ordine progressivo, pochissimo potè curare la disposizione, il collegamento e l'altre doti onde risulta una bella unità. Nè forse, dopo il primo libro, pel quale particolarmente molte cose gli stavano apparecchiate nelle storie altrui, egli pensò più a tali doti. O non vi pensò che in que' libri, come il quarto, ove quasi tutti i fatti speciali potean riferirsi facilmente ad un avvenimento principale. Come però ai fatti singolarmente proprii della storia egli ama frapporne di genere diverso, che all'ammaestramento della vita ei crede ancor più utili, gli accade non di rado, che dopo avere più o men bene distribuiti e collegati gli uni passi anzi salti agli altri con sbalzo veramente mortale. Così nel libro secondo (e quest'esempio vi basti per molti), narrati gli estremi casi e il gran cangiamento della Fiorentina Repubblica, e aggiunto che il cognato suo Alessandro Vitelli lor principale autore diceva con gioja feroce: «a' miei figliuoli non toccherà più la vendetta di mio padre, poichè io ho fatto il debito abbastanza», salta senz'alcuna transizione a parlare della vita sobria di Luigi Cornaro.

Quindi, poichè l'opera sua fu al suo termine, dubitò egli medesimo se potesse più darle il nome di storia. E scrisse in margine al proemio: potrei forse farle un prologo simile a quello della Calandria: «voi sarete oggi spettatori d'una nuova favola, non volgare, non latina; non in versi, non in prosa ec.». E aggiugne con accorta schiettezza, che un amico, a cui l'avea mostrata, la chiamava «opera piuttosto di novelle che storia».

Altri, che probabilmente la videro, e vi trovaron pure, se non la composizione storica, almen cert'ordine cronologico, forse la gratificarono del nome d'annali. Ciò per altro mal si argomenterebbe da quella lettera dell'Aretino, di cui il cav. Pezzana nelle sue Giunte più recenti agli Scrittori Parmigiani dell'Affò reca alcune parole. Poichè quella lettera, come poi mi sono accertato leggendola intera, non può in alcun modo riferirsi alla storia, che alfin m'è avvenuto di scoprire. Ove potesse riferirvisi, avrei dubitato della sua data, ch'è del 1545, innanzi al qual anno (l'anno in cui il De Rossi fu a Parigi ospite del suo Cellini) la storia, non ch'esser compita, come il cav. Pezzana ha supposto, appena poteva essere cominciata. Che se quel che vi ho accennato del suo proemio non è menzogna, essa allora non era pure ideata. E il nome d'annali è forse usato nella lettera come quel di poemi, dato cioè officiosamente ad alcune relazioni e ad alcune vite, come quel di poemi ad alcune piccole poesie, ed esteso pure al libro degli usi e trovati diversi, che nel proemio già detto sembra additarsi dall'autore qual parte integrante della sua storia.

Io seguito a dir storia, come vedete, poichè già sarei poco più preciso anche dicendo annali. Opera storica sarebbe forse il nome più conveniente, poi ch'essa, come diceva l'autor medesimo, non ha forma che propriamente la distingua. Opera singolare sarebbe pure un altro nome che le converebbe, poichè sotto forma dubbia contien pur cose, in parte forse dubbie anch'esse, ma quasi tutte singolari.

Una di quelle che possono sembrar dubbie (un tristo consiglio di Clemente al re Francesco nella conferenza di Marsilia) già ve l'accennai nella prima mia lettera, avendola trovata ne' frammenti che aveva allor fra le mani. Se non che nell'opera intera la trovo tanto ripetuta, ch'or debbo aggiugnere, che per l'autore era una delle più certe. Narrandola, il che fa nel primo libro, ei volle forse supplire al silenzio del Guicciardini. Toccandola altrove, specialmente nell'ultimo, volle forse rispondere al dubbio che altri gliene avea mostrato.

Al Guicciardini, e nel primo suo libro, e altrove, egli dà il titolo di storico eccellente. Però, ben vel pensate, di rado avvien ch'ei lo nomini per confutarlo. Io almeno non mi rammento che il faccia se non in un luogo dell' ultimo libro già mentovato; del libro, per vero dire, ove ciò meno si aspetterebbe. Ivi parlando dello stato delle fortezze in Italia, e ricordandosi che lo storico eccellente avea detto, che il primo esempio di buone fortificazioni fu in Italia dato da' Turchi al tempo di Ferdinando l'Aragonese nella oppugnazione d'Otranto, sostiene contro di lui che il buon esempio fu dato prima da' Veneziani.

Il suo rispetto pel Guicciardini è tanto, che anche ove parla di lui, non come di storico, ma come d'attore nella storia, egli, sì poco rispettivo verso gli altri, quasi non ardisce censurarlo. L'unico luogo, forse, in cui lo faccia con qualche rigidezza, è quello che già vi accennai de' frammenti, e che or trovo (fuor d'ogni mia aspettazione veramente) nell'ultimo libro, il luogo cioè ove lo paragona con Palla Rucellai. Nel secondo (ove ciò sarebbe stato più a proposito) ei tocca due suoi gravi inganni, il primo d'aver creduto, col favorir Cosimo, d'ottenere un governo simile a quel di Venezia, l'idolo dei politici di quel tempo, come poi de' politici d'altri tempi il governo inglese; l'altro d'aver sperato che Carlo quinto, il quale, per mostrar d'attenersi alle capitolazioni, mai non avea voluto dare ad Alessandro il titolo di duca, farebbe altrettanto con Cosimo. Toccando però quelli ch'ei chiama suoi inganni, ei lo fa in modo, che non vuol che si dubiti menomamente della sua politica prudenza.

Non così ove tocca alcuna cosa del Giovio, al qual nega ben altro che la prudenza politica. Avvi uno storico da lui ancor più ammirato del Guicciardini suo contemporaneo, uno storico, a cui dà quasi antonomasticamente il titolo di buono, che mai forse non gli fu dato da altri, e quel di verissimo, che pur gli fu dato da molti. Il Giovio è per lui, si può dire, il contrapposto di questo storico. Però lo ribatte, all'uopo, senza riguardi, e talvolta anche ribattendolo il morde. Nel libro primo, p. e., dopo aver detto che il Giovio, per non tassar il Pescara, colorì a suo modo la condotta di Francesco Sforza verso l'imperadore; dopo avergli opposto quel che ne avea udito dallo Sforza medesimo, e già si potea congetturare, poichè nel congresso di Bologna Clemente ebbe d'uopo d'intercedere per questo principe, entra in ciò ch'ei dice del congresso medesimo, nelle sue adulazioni a l'imperadore, cui di piccolo e non bello fa bellissimo e di maestosa presenza, ec. ec.

Ma le sue repliche più mordenti non sono sempre le più importanti. Ve ne recherò una semplicissima, ch'è pur di quelle che interessano di più. Il Giovio avea detto che il cardinal Cibo, onnipotente, come sapete, sotto il duca Alessandro, e fatto luogotenente dopo di lui, favorì moltissimo l'elezione di Cosimo. Il nostro autore nel libro secondo gli oppone che il Cibo non favori l'elezione di Cosimo che quando vide di non poter ottenere quella di Giulio figlio naturale d'Alessandro medesimo. E vide di non poterlo, egli dice, quando il Vitelli, che a principio gli aderiva, e avendo in Firenze 6000 fanti al suo comando era allora il vero arbitro delle cose, si dichiarò per Cosimo. Della qual dichiarazione, ei pur dice, fu causa mia sorella sua moglie, che il rimproverò acremente di favorire un bastardo col quale non aveva alcuna attinenza, quando potea favorir Cosimo che gli era cugino. Queste cose, egli aggiunge, io le debbo saper bene, poichè le ho udite dalla bocca del Vitelli medesimo, presente la sorella, quando venni a Firenze a rallegrarmi con Cosimo a nome di Paolo terzo, che punto non si rallegrava, ec. ec.

Il suo racconto, come vedete, sembra contradire non pur al Giovio, ma anche al Varchi, il qual narra che chi propose l'elezione di Giulio fu il Canigiani, sorridendone o sdegnandosene gli altri che intervennero al consiglio ove fu eletto Cosimo. Non cosi sembra contradire al vostro Adriani, il qual dice che il Cibo parlò in quel consiglio della necessità d'eleggere uno di casa Medici, e interpreta che accennasse a Cosimo stesso. Che se veramente accennò a lui, può anche aver accennato a Giulio nel consiglio che si tenne fra pochi, innanzi di venire all'altro. E il Varchi medesimo cel fa credere, dicendo che una delle ragioni dello sdegno accennato fu il sapersi, che anche il Cibo voleva l'elezione di Giulio, come quegli che sperava di doverne essere tutore e governar la città lunghissimo tempo.

Col Varchi si accorda meglio l'autor nostro ove dice di discordare da tutti gli storici precedenti, nel paragone cioè ch'ei fa nel primo libro fra Niccolò Capponi e Francesco Carducci, fra l'uomo del just milieu, com'oggi si direbbe oltramonti, e l'uomo dell'extrème gauche. Io non so se in questo paragone ei non sia mosso alcun poco da affetto contrario a quello, onde uno storico illustre, nipote al Capponi, fu mosso a scriverne la vita. Dice infatti egli medesimo nell'ultimo libro d'aver contro la famiglia de' Capponi molte cause di risentimento. Se non che ove ciò dice, pensando forse che ad un poco di risentimento potrebb'essere attribuito qualcuno de' suoi giudizii riguardo a Niccolò, a mostrarsene immune, entra negli encomi di Giuliano Capponi e della moglie tanto amorosa.

Piace molto all'autor nostro il far paragoni, e non degli uomini soltanto, ma altresì delle cose. Nel primo suo libro, p. e., oltre, il già detto, abbiam pur quello del cardinal Della Rovere e di Virgilio Orsino, dell'Orsino e di Giangiacomo Triulzio, eccitatori di guerre, l'uno scusabile agli occhi dell'autore, l'altro biasimevole, e il terzo lodevolissimo; l'abbiamo di Leon decimo e di Clemente settimo, l'uno sì letterato e sì prodigo, l'altro sì poco letterato e sì sottile nelle spese; l'abbiam pure di Carlo quinto e di Francesco primo, ambidue vittoriosi alla lor volta, e ambidue, secondo l'autore, o incuranti o incapaci di proseguir la vittoria. — Sul principio del libro secondo ne abbiam uno veramente notabile di due congiure contemporanee, ma fra loro diversissime. quella di Lorenzino de Medici e quella di Bonifazio Visconti; poi uno assai men notabile, poichè appena indicato, fra la prudenza bellica di Pier Maria De' Rossi a cui l'autore era fratello, e di Piero Strozzi a cui non sembra molto amico. — Una specie di paragone abbiam pure nel quarto fra tutti i principali personaggi che si segnalarono nelle guerre di Siena. — L'abbiam nel quinto fra Paolo quarto e Filippo secondo, ciascun dei due inclinato ad offender l'altro, e ciascun. dei due ritenuto in mezzo alle offese da rispetti diversi; e l'abbiam quindi fra il duca d'Alba e il principe d'Orange, a cui il duca, sedendo un giorno alla mensa di Filippo, ebbe, come l'autore seppe da uno de' commensali, il coraggio d'anteporsi. — Molti ne abbiamo pur nel libro sesto, uno appena indicato fra le diverse congiure di que' tempi (17 fra tutte, non annoverando fra esse quella di Filippo Strozzi che l'autore chiama guerra aperta) e una sola delle quali, com'egli nota, riuscì; poi tra la prospera fortuna di Cosimo (ch'egli in uno de' migliori episodi della sua storia esamina se fosse maggiore della prudenza) e la fortuna contraria d'Ercole duca di Ferrara e del Langravio che gareggiò con Carlo per l'impero; poi fra le navigazioni de' Portoghesi e quelle degli Spagnuoli, le une, al dir suo, più ardite che fortunate, le altre più fortunate che ardite, giudizio ch'io non so se debba attribuirsi interamente alla sua convinzione, o anche un poco alla sua avversione per quelli ch'ei chiama flagello del mondo e rovina d'Italia. — Due paragoni abbiam finalmente nell'ultimo, l'uno formale fra Giulio terzo e Paolo quarto; l'altro un po' men formale fra tutti i papi e alcuni principi di cui parlasi nella storia, e questo in bocca d'un filosofo sanese, di cui riferisce un lungo dialogo sulla provvidenza che presiede agli umani avvenimenti.

Il filosofo è, o per dolore mostra il essere, fatalista, ma d'altro modo, già ben vel pensate, che gli scrittori d'una delle scuole istoriche moderne, contro i quali abbiam letto, in un giornal d'Aprile, un capitolo eloquente, oggi stampato nell'opera ond'era tratto (gli Studi Storici del Chateaubriand) che vorrete pur leggere. L'autore, che interloquisce al filosofo, mette innanzi non so qual sistema di compensi, ma compensi non belli, che dall'Azaïs non si vorrebbero accettare. Egli, anche meno di lui, è fatto per salire all'alte regioni della metafisica. In una regione più bassa ei si aggira a suo agio, e mostra spesso di veder lontano e di veder bene.

In quel primo paragone, p. e., ch'io vi accennava pocanzi del primo suo libro, s'ei loda il Trìulzio fra gli altri eccitatori di guerra, si è perchè, al dir suo, le cose eran ridotte a tale che la guerra era pur necessaria per aver la pace. E due consigli favorevoli alla pace e al bene d'Italia, egli avea detto più sopra, furon dati a Carlo ottavo, l'uno dal Della Rovere, ed era di dar mano a' cardinali più autorevoli che volean deporre Alessandro, l'altro dal Triulzio, ed era di rimettere in istato il figlio di Gio. Galeazzo fatto morir di veleno dal Moro. Il non averli accettati condusse in seguito, com'egli pensa, a crudeli necessità. — In quella specie di paragone, che pur vi accennai, fra Paolo e Filippo (è nel libro quinto) ei mostra assai bene che la ragion della pace fra loro conchiusa fu l'impossibilità di sostener più a lungo la guerra; benchè il re spagnolo e il duca d'Alba suo ministro volessero far credere che il fosse per parte loro la reverenza delle somme chiavi.

Nel libro primo già detto ei mostra di sapere il come e il perchè delle guerre di Francesco primo in Italia, ma del saperlo si confessa debitore al fratello ch'era al servizio di Francia. — Nel libro quinto pur detto ei mostra d'aver indagate da se le ragioni che mossero il re Enrico a far guerra in favor del papa contro Filippo, e quelle pure che poi lo indussero ad accettar una pace, cui potea fare, com'ei dimostra, e più utile e più onorevole.

Già in più libri antecedenti al quinto, ragionando d'un'istituzione, il cui nome fu per più secoli nome di spavento, non aveva esitato a dichiararla funesta alla religion medesima cui parea sostenere. In un luogo gli avea pur detto: Lutero colla sua eresia obbligò il clero cattolico a far nuovi studi; l'inquisizione lo obbligò all'ignoranza poichè ogni studio parve a lei eresia. Nel libro sesto egli spiega e afforza di fatti queste dichiarazioni, assai notabili in bocca d'uomo avversissimo ad ogni specie di novatori e di novità in materie religiose, come pur apparisce nel libro stesso, ove parla delle guerre degli Ugonotti.

Di queste e d'altre guerre straniere, ch'ei narra frammezzo alle cose d'Italia, sembra, generalmente parlando, assai ben informato. E forse già n'erano relazioni a stampa, come può argomentarsi da alcuni disegni inseriti nella sua storia, uno per esempio dell'impresa di Cales, un altro dell'impresa di Thionville, un altro dell'assedio di Metz, un altro di quel del castello dell'isola delle Zerbe, ec. ec. Più relazioni gli furono mandate dagli amici, corredate talvolta di documenti autentici, le lettere, p. e., del marchese Del Vasto sull'affar di Cuneo (ove i terrazzani si difesero bravamente aiutati da una compagnia di Zingani), quelle di Palì bascià, generale dell'armata turchesca, al Doria e alla signoria di Genova ec. ec. Alcune di tali relazioni, coi documenti che le corredano, furono da lui annestate alla propria narrazione. Altre, come apparisce da un ricordo posto in fine di esse, dovean formare alla narrazion medesima, ov'egli ne fece uso, larga appendice. Ma convien dire (e il ricordo accennato ne dà indizio) che poi tutte, meno una sulle guerre degli Ugonotti, siensi smarrite. La qual una è appunto la piccola appendice, di cui già vi feci motto, e nel mezzo della quale è la lettera, che pur vi accennai, e che interessa a più riguardi.

Poi ch'essa non solo toglie ogni dubbio che l'autor della storia sia il De Rossi, troppo conosciuto, per le vicende che già sapete, sotto il titolo di Vescovo di Pavia; ma ci scopre pure l'autore della piccola appendice, o relazione, troppo meglio scritta d'ogni miglior parte della storia. L'autor della relazione, infatti, è l'autor medesimo della lettera, destinata ad accompagnarla, Girolamo Garimberto, concittadino del De Rossi e vescovo di Gallese, col quale avrete fatto un poco di conoscenza leggendo le Lettere del Caro. Ch'io, per quanto vi sappia lettore instancabile, non so assicurarmi che abbiate lette le varie sue opere, nemmen quella che forse il merita di più, le Vite d'alcuni Papi e Cardinali, rarissima, per testimonianza dell'Haym, fin da quando venne in luce, poichè ne fu tosto impedita la vendita. Il che ci rende credibilissimo la lettera stessa di cui vi parlo, narrando le difficoltà che l'opera incontrava presso l'inquisizione prima d'essere pubblicata. E il timor dell'inquisizione verosimilmente rattenne l'autore del compir la sua relazione delle guerre degli Ugonotti o, com'egli propriamente la intitola, «origine e cagione delle discordie in Francia per conto della religione e successo della guerra». Per degni rispetti, com' egli dice, volle tacere in essa delle cose d'Avignone, e terminarla, quasi opera drammatica, piuttosto in pregiudizio degli Ugonotti che de' Cattolici. Promette però di mandare ciò che bisogna al suo compimento se l'amico lo desidera. Intanto pregalo di custodirla diligentemente, non avendone egli altra copia. E dichiara che il perderla troppo gli spiacerebbe, poichè se, scrivendola, non potè sodisfare a sè stesso quanto allo stile, si era pur sodisfatto quanto alla verità.

Questa lettera ei la scrivea ne' 14 marzo del 1563, un anno circa innanzi alla morte del De Rossi, il quale da quelle parole che riguardan lo stile non potè non sentirsi alquanto trafitto. Poichè dello stile ei non curossi menomamente, mantenendo in ciò la parola data nel principio della sua storia. Pure il mancarvi gli sarebbe stato perdonato troppo più volentieri che il mancare a quella di non inserir nella storia poco verosimili orazioni. E cominciò ad inserirvene sul principio del terzo libro, narrando la congiura del Fiesco, materia poi di pulitissimo comentario (quella del Mascardi) ove pur sono orazioni se non più verosimili Certo assai più eloquenti. Ne inserì in seguito nel quinto, mettendo a fronte francesi e imperiali, che cercano a gara di attirar Cosimo alla lor parte. E ne inserì di nuovo nel sesto, ove le non finte orazioni, ch'ei pur riferisce, una del Polo, se ben mi rammento, ed una in forma epistolare d'un fuoruscito fiorentino contro le orazioni pubblicate in lode di Carlo quinto, dovean fargli temere un. poco favorevole confronto.

Ma, ricordando il libro sesto, penso che più sopra obliai d'accennare un altro passo di quel libro, ove si mostra maggiormente l'acume, ch'io vi lodava, del nostro autore. Il qual passo si legge verso la fine, ed è quello ove cercasi perché gl'Inglesi nelle guerre, che formano il soggetto della narrazione del Garimberto, furono avversi agli Ugonotti. E più altri passi forse avrei potuto e potrei accennarvi di merito non dissimile. Ma per non tornarmi addietro, e allontanarmi più che mai dalla fine d'una lettera che comincia a riuscir troppo lunga, mi contenterò d'indicarvene due dell'ultimo libro, quello ove si esamina il contegno de' Veneziani riguardo a Cosimo, e quello ove si pone Cosimo a fronte di Pio quarto, da cui fra altre strane cose vorrebbe che Lucca fosse, come luterana, sottoposta a stretta inquisizione, per esser poi egli delegato a costringerla recalcitrante, e così farsene signore.

Altre particolarità, che l'autor nostro ci narra e del viaggio di Cosimo a Roma, e de' suoi fatti così privati che pubblici in Firenze, non mi rammento d'averle trovate nelle storie d'altri, nemmeno in quella del Galluzzi. Molte pure ei ne vien narrando de' fatti d'altri prìncipi, specialmente italiani. Ma riguardo a quelli di Cosimo egli è quasi così minuto come riguardo a quelli d'Alessandro e de' successori, pei quali sembra essersi proposto di supplire anche ai Diarj del Burcardo e del Grassi.

La morte del Datario, p. e., orribil fatto del pontificato d'Alessandro, è da lui narrata con particolarità ignorate, credo, anche dal Burcardo, e a lui palesate da un familiare d'Alessandro medesimo, Girolamo Beltramo, ch'ei chiama uomo veridico e degno di fede. La storiella ch'ei pur gli raccontò del piatto di maccheroni mandato ad Alessandro da donna Giulia Farnese un venerdì di concistoro, in cui ella aspettava il cappello pel fratel suo e non l'ebbe, credo che il Burcardo o altri la racconti appunto così.

L'autor nostro, guardando ai principii del pontificato di Leon decimo, vorrebbe quasi far di lui un nuovo Alessandro, ma occulto. Poi si avvede egli medesimo che fra due tali uomini non può essere somiglianza se non accidentale, e appiacevolisce il suo discorso.

Il Giovio nella Vita di Leone ci avea parlato della tavola di questo pontefice, come della più delicata che si tenesse in quel tempo. Ma delle sue delicatezze non ci avea fatto conoscere che certa salsiccia, ch'io credo facesse gola anche al Bayle, poichè ne .parla due volte e nella Vita di Leon medesimo e in quella del rìgido Adriano. Di qualche altra parmi che abbia parlato qualch'altro scrittore, citato dal Fabroni e sulla sua fede anche dal Roscoe. Ma un catalogo così compito, come fa l'autor nostro, nessuno ce lo ha dato. Il catalogo però, ch'io voglio recarvi (se mai vi piacesse di dar un giorno agli amici, che villeggiano con voi, un pranzetto alla Leone) farebbe oggi sorridere di pietà i nostri gastronomi. «Fece fare (Leone) la salsiccia delle polpe di fagiani e galline d'India col grasso di cappone e d'oca, dentrovi di nobilissime spezierie, burlandosi di quello che recita Lampridio in Eliogabalo, del qual dice che fece exitia de ostricis et piscibus. Fece parimenti le torte di capi di latte, bianco mangiare col zucchero, e cuocere i più dilicati pesci nelle reti de' capretti lessi ed arrosto, le torte e pastelli di prugnuoli, e simili esquisite vivande, e fece cuocere i beccafichi ed ortolani nelle guastade, perchè il grasso loro non andassi a male, e morir le lamprede nel vino greco e malvagia, turando loro la bocca con noce moscada, e gli altri buchi con garofani e pasta di marzapani». Fece Leone, egli dice, ma poi soggiunge che consiglieri e provveditori di queste delicatezze erano Simon Tornabuoni e il Moro de' Nobili, fiorentini (il Giovio, invece del Tornabuoni, nomina Poggio figlio del celebre Poggio Bracciolini) fra Mariano e il cav. Brandini veneziano, i quali, com'ei dice più sotto, ebbero presto un grand'emulo in quell'Umberto di Gambara, che trovò l'imbeccare «i pollastrini, le galline d'India e i capponi con farina e zucchero intrisi di latte ed acqua rosa» e non so che altro per aver poi squisitissimo il castrato e la porchetta. Questa però (sappiatelo per vostra norma) a Leone non piaceva, bench'egli, essendo letteratissimo, dice l'autore, ne ragionasse a tavola dottamente; notizia che sarebbe piaciuta troppo al dotto autore della cicalata sulla porchetta (L. Nardi) ch'io spero vivo e sano, benchè da lui, già è un pezzo, non si abbia segno di vita.

Poichè ho nominato dianzi il rigido Adriano, mi par di dovervi recare in poche parole un grazioso aneddoto che lo riguarda. Quand'egli da non so che parte di Germania venne a Roma, fu molto meravigliato, dice l'autore, della molto grande insolenza di Pasquino e di Marforio, che, in versi e in prosa, in latino e in volgare, dicean mal d'ogni uomo e d'ogni cosa, e volle farli gettar nel Tevere. La saggia osservazione d'un loro amico, ch'essi forse. come le rane, avrebber nell'acqua cantato ancor più forte, li salvò ai futuri destini de' nipoti di Romolo.

Di Clemente succeduto ad Adriano ei racconta fra gli altri un aneddoto, narratogli da Clemente medesimo, e che pur voglio riferirvi. Era il dì che Clemente aprì la porta santa pel giubileo. L'autore era cogli altri prelati del suo seguito e Clemente gli disse: oggi tanti anni io assisteva in questa medesima cerimonia ad uno de' miei antecessori: era allora, come sapete, privo di Firenze: non possedeva al mondo che una pensioncella di 200 ducati, pagatami appunto in quel giorno, sicchè li aveva nelle tasche del vaio: nella folla un mariuolo me li rubò, ed io ne rimasi tanto sconsolato ch'ebbi a morirne: chi mi avesse allor pronosticato che un dì aprirei io stesso la porta santa, l'avrei trattato da pazzo. E la ragion principale di ciò, aggiugne l' autore, doveva esser quella per cui il vecchio cardinal Accolti scrisse nella bolla d'elezione Hac die creamus in summum pontificem Julium de Medicis e non volle mettervi cardinalem. La qual ragione, com'ei prosegue, era tanto potente, che diede motivo in Firenze alla famosa scommessa dell'Orlandini col Benintendi, ch'ei non sarebbe papa. Questa scommessa, e la fine infelice ch'ebbe per essa l'Orlandini, la narran pure e il Varchi e il Segni e altri storici. L'autor nostro pone in bocca all'Orlandini un detto spiritoso, che gli altri non pongono, ma che forse fu da lui pronunziato. Il detto però, che diede pretesto agli Otto di farlo prendere e decapitare, fu un altro, e l'ho saputo da pochi giorni, poichè ad un amico è avvenuto di leggerlo ne' vecchi registri di questa cancelleria criminale, e all'orecchio ve lo dirò.

Fra i tanti aneddoti, ch'ei narra di Paolo terzo, è pur quello della cassetta magica (chi sa che cassetta era?) mandata a Pier Luigi Farnese, e ch'egli dice essergli stata mostrata dopo la morte del Farnese dall'amico Don Ferrante Gonzaga. Fra le particolarità, ch'ei narra di Paolo quarto, è pur quella della sua avversione pel card. Polo; de' suoi rigori contra il Flaminio che avea scritto in compagnia del Polo ec., onde prende occasion di parlare della proibizione fatta da Paolo di tanti libri, dello sgomento de' letterati, del ripiego, che altra volta vi accennai, de' Veneziani ec. ec.

Don Ferrante nominato pocanzi fu, parmi, dopo il Vitelli, quel che mise l'autor nostro nel segreto d'un maggior numero di cose. Chi vel mise innanzi a loro fu, per avventura, Gio. Matteo Giberto vescovo di Verona e segretario, come sapete, di Clemente. Nelle conversazioni avute coll'autor nostro ancor molto giovane, ei gli disse p. e. come Guido Rangone, generale dell'armi ecclesiastiche, potea benissimo giugnere a Roma innanzi al Borbone e salvarla, e che, a scusarsi di non averlo fatto, falsificò gli ordini che avea ricevuti, ec. Gli disse pure come in quella guerra, che condusse a Roma il Borbone, ei s'avvide ben presto che Carlo mandava a' suoi ambasciadori lettere ostensibili e lettere segrete, le une contrarie alle altre, scoperta che Carlo mai non seppe perdonargli, ec. ec.

Simili particolarità avrebber, credo, resa preziosa la storia del nostro autore a quanti scrisser recentemente le vecchie cose d'Italia, in ispecie a quello, che, dopo aver scritto le accadute fra il 1789 e il 1814, ha pur voluto (come il pubblico vedrà fra poco) ripigliar le antecedenti dal punto in cui le lasciò il Guicciardini. Alcune particolarità, che vi dirò, condurran forse a consultar questa storia il poeta, che dalla sua villa guardando, com'altra volta vi scrissi, alla rocca di Montemurlo, e rappresentandosi que' famosi nel cui destino si compirono i destini della patria e d'Italia, pensa pure da un pezzo a condur sulle scene il più famoso di tutti, Filippo Strozzi.

Fu lo Strozzi, leggo nel secondo libro di questa storia, amicissimo al nostro autore. Ora avvenne che, trovandosi egli a Roma sul principio del pontificato di Paolo terzo, ed essendo un giorno a pranzo in casa dell'autor medesimo, un greco chiromante, di nome Basilio, ivi presente, gli predisse che avrebbe per principal nemico le sua ricchezze e perirebbe di morte violenta. E la morte sua fu violentissima, dice l'autore, il qual non dubita, benchè il Segni ed altri ne dubitino, ch'ei si uccidesse di sua mano. Al che fu spinto, egli dice, quando fu certo che Cosimo, ottenutane facoltà da Carlo quinto, già stava per consegnarlo alla mano del carnefice. Ma autori della risoluzione di Cosimo, ei soggiunge, furono il cardinal Cibo e la madre, dicendo che le sue tante ricchezze (aveva ancora di 50 mila ducati di reddito) erano in sua mano pericolose, e il sarebbero assai meno divise fra molti figliuoli. Che se questo detto vi sembrasse poco verosimile, pensando a ciò che narra, or non rammento se il Segni o il Varchi, che quanto da lui possedevasi ne' banchi di Spagna, d'Alemagna e di gran parte d'Italia già per ordine di Carlo era stato confiscato, vi parrà verosimilissimo se penserete a quel che scrive l'Adriani che il più de' suoi averi era su' banchi di Francia e di Lione specialmente.

Di quel che avvenne a Montemurlo l'autor nostro parla qual uomo che dovea pur esserne minutamente informato. Poichè la vittoria, che s'intitola da quel luogo, è, come sapete, il gran fatto della vita militare di suo cognato il Vitelli. Non però ei dà al Vitelli tutto il vanto che gli danno gli altri storici. Se il principio della vittoria è dovuto al Vitelli, il compimento egli dice (e il dimostra, narrando particolarità che gli altri non narrano) è dovuto a Bombaglino d'Arezzo, ora (son sue parole) per leggieri cagioni prigione del duca, il qual osserva troppo fedelmente l'onesta massima di rimunerar il bene col male.

Questa libertà anzi quest'amarezza con cui in più accasioni parla del duca; quella forse maggiore con cui parla talvolta di Leonora sua moglie; quella grandissima con cui parla d'altre persone potenti (benchè, per rispetto alla dignità della storia, abbia, com'ei s'esprime, taciute, ove la necessità non richiedeva il contrario, le lor maggiori cattività) furon causa, io penso, che dopo la sua morte questa storia per molt'anni si nascondesse gelosamente.

E forse il suo nascondiglio fu nel luogo stesso, cioè nella villa del Barone, ove fu scritta, ed ove pare che una volta almeno l'autor suo dovesse riuscir eloquente. Parlando in fatti dell'impresa di Montemurlo a quella villa tanto vicino; pensando all'antico possessore della villa medesima, già uomo di tanto consiglio, e in così grave impresa conduttore sì improvvido; narrando appunto che nella villa stessa ei stavasi oziando mentre d'ogni intorno ingrossavano i pericoli ec., ec., ei doveva al meno trovar parole sì calde quai le trovò il sempre elegantissimo ma non sempre caldissimo Adriani.

Dal che però non vorrei inferiste che, ove l'autore ebbe minor occasione di riuscir eloquente, mai non usasse parole se non ancora men calde. Ch'ei le usò pure or qua or là calde abbastanza; e il lor calore si sentirebbe di più, se d'ordinario non si sperdessero fra troppo altre. Le usò tali, se ben mi ricordo, là dove, narrata la congiura del Fiesco, ei mostra il cadavere del giovane ambizioso, trovato dopo quattro giorni, e strascinato dietro la nave del Doria, o com'io, per riverenza al Doria, amo credere, dietro una delle sue navi e senza sua saputa, ciò che potrebbe accordarsi col racconto del Mascardi. Le usò pur tali, p. e., ove, detto del lungo processo dei Caraffa sul principio del pontificato di Pio, il qual non era loro men debitore che a Cosimo, narra il supplizio d'uno di essi, reca la lettera sì pietosa insieme e sì generosa che gli scrisse il padre poco innanzi alla morte ec. ec., d'onde prende occasion di narrare una particolarità notabilissima della propria vita, com'egli cioè, trovandosi un dì di natale nella chiesa di Castello, fu per essere ucciso da tre sicari mandati da uno dei Caraffa, e venne difeso da un figlio naturale del duca d'Alba ch'era ivi per udir messa con molti spagnoli.

Quest'ultime cose leggonsi sul fine della sua storia, ch'ei chiude, enumerando gli uomini più celebri del suo tempo, molti de' quali, com'ei dice, erano suoi amici, e da cui egli sembra prender congedo. Ma io pure debbo alfin prenderlo e dalla storia e da voi, al quale parmi aver mostrato abbastanza quel che già vi diceva della storia medesima, ch'essa forse è la meno bella di quante ne furono scritte nel secolo decimosesto, ma forse è la più curiosa, il che basta perchè io guardi con nuova compiacenza i frammenti del codice tempiano che mi hanno guidato alla sua scoperta.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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rev. 100705