Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera settima

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Vi hanno detto il vero: ho trovato una miniera d'oro, di quell'oro che non dà che il Trecento, e del più bello, chi lo separi da un poco di scoria. Nè voglio dirvi chi lo separi dalla materia che vi sta sotto, perchè parte di questa viene dall'antichità ed è molto buona, parte vi presenta l'imagin viva d'un secolo, in cui la mente umana fa singolari sforzi per risorgere; e a questi sforzi, sovente assai infantili, voi, se non altro, sorridete con indefinibile diletto.

La mia miniera non è tutta ben unita; ha frammezzo, per seguitar la metafora, vene d'oro diverso e torrentelli che ne portan pagliuzze. Ma cominciam dalla miniera, cioè, per uscir di metafora, dal grosso del codice di cui vi è stato parlato; da quel che può annunziarsi come una novità.

Esso è indubitatamente autografo, e delle 165 carte numerate, onde compensi l'intero codice (ch'è in foglio e cartaceo), ne prende per lo meno le 130. Da mano moderna, che ha fatto al codice il frontespizio, esso è intitolato «Creazione del Mondo ed altre Istorie». Come convenga intitolarlo me lo direte voi, se il potrete, quando vi avrò accennato a un dipresso il suo contenuto, che per chi fece il frontespizio rimase verosimilmente un enigma.

La storia della creazione, com' è indicato nel frontispizio, vi tiene il primo luogo. Appena però vel tiene maggiore che nella Bibbia ond'è tratta. Essa quasi non è lì che per dar motivo a discorrere delle diverse parti del creato, in ordine, come già v'imaginate, a' quattro famosi elementi. La scienza fisica e astronomica dell' autore non va al di là di quel ch'egli ha potuto infondere d'Aristotele e di mastro Ceocco (Cecco d'Ascoli) da lui spesso citato. Della scienza geografica voglio darvi un saggio, che vi farà pensar tutt'insieme e ai Viaggi di Gulliver e all'Odissea. Non vel darei però, nè voi lo vorreste, se anche non fosse un bel saggio di lingua.

«E sappiate che si trova scritto che tre monaci si misero andare al paradiso terrestre di sopra detto, che prima arrivaro nelle terre de' Piccinachi, dove gli uomini e le femmine compiuti, giovani e vecchi, non sono maggiori che tre spanne (e vanno le donne velate e mantate come qui, e le fanciulle co' capegli infino a' piedi) e corrono come cani, e il lor parlare è quasi un sufolare, e mangiano peruzze e meluzze e altri frutti salvatichi che i loro alberi per se medesimi producono. Ancora arrivaro in parte dove trovaro uomini ignudi e tutti pelosi, e facevano onore a chiunque v'arrivava, e l'uno dopo l'altro voleva così fare, e chi rifiuta la loro cortesia se l'hanno per male, e dannogli di molte bastonate. Trovaro ancora paese pieno di manna dolce come mele, e la gente di quel paese erano accoppiati, cioè i loro corpi a due a due in su tre cosce, e sempre piangevano. E, domandati per interprito perchè piangevano, risposero che piangevano per tema che l'uno non morisse, però che quello che rimanea vivo convenia che portasse il morto, onde la sua vita era poi cortissima. Poi trovaro e videro le lammie, femmine basse e bellissime in faccia, ma incontanente si dileguavano nelle loro tane ch'aveano sotterra con molte caverne e con molta ricchezza, secondo che da altrui fu detto loro. E molte altre cose trovaro maravigliose ed incredibili, secondo lo scritto, le quali ho voluto tacere, per non parer menzoniere, tenendomi al consiglio del sommo poeta Dante dove disse cosi: Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna ec.».

Eccovi l'uomo sul doppio confine del dubbio che già comincia a nascer nel mondo, e della credulità, a cui, e per ignoranza, e per nuova impazienza di sapere, è inclinatissimo, ma che ormai ha d'uopo di giustificare a se stesso. Dic'egli, infatti, poco dopo il passo che ho recato: «E di molte altre terre e genti con nuovi costumi v'ha, che a noi parrebbero favole. Ma siate molto certi che, dicendo, ne' paesi istrani da noi, di nostre usanze e costumi, pare a loro non meno nuova usanza e costumanza la nostra che a noi la loro, e dehb'essere così».

Passando con lui dalla prima alla seconda delle tre parti ch'ei ci descrive della terra, m'avvengo in due passi = il Paradiso di Maometto disfatto nel 1277 da Alan signor de' Tartari = e i Costumi d'Ahamul dove tutti gli uomini sono bozzi di loro donne = piacevolissimi l'un più che l'altro e per lingua veramente mirabili. Ma ambidue sono lunghetti, e guai se mi lascio andar così presto al piacere di lunghe citazioni.

Ai due bei passi mal sarebbesi applicata l'osservazione dell'autore ch'io vi recava pocanzi. Ad altri poco men belli sarebbesi potuta applicare, poichè pieni di cose nuove ma non incredibili, tratte da relazioni ormai sicure di viaggiatori, specialmente del Polo. «Il Gran Cane che regna oggi (dico oggi, secondo la tornata di messer Marco) è di bella statura e di mezzana forma ec.». Per le quali parole siam fatti certi, che l'autore scrisse alcun tempo ma non troppo tempo dopo questa tornata, o almen dopo la divulgazion del Milione, che si vuol fatto toscano fin del primo anno del secolo decimoquarto. E la frase messer Marco parrebbe indicare che, quando l'autore scriveva, l'illustre viaggiatore fosse ancor vivo. Se non che l'anno della sua morte è assai incerto, benchè i più s'accordino a crederla avvenuta poco innanzi o poco dopo quella sì infelice di mastro Cecco. In proposito del qual mastro Cecco- arso vivo come sapete nel 1328, un uomo erudito, che vide il codice prima di me, dissemi un giorno che l'autore doveva aver scritto lui vivente, poichè devoto, qual si mostra, dopo il giudizio del terribile tribunale che il condannò, mai non gli avrebbe data tanta lode. Senza toglier pregio a quest'osservazione, risposi allora varie cose che mi facean credere che l'autore avesse scritto forse prima ma anche dopo quel giudizio. L'autore mi ha poi prestata egli stesso risposta perentoria che a suo luogo vi dirò.

Intanto facciam via con lui, via molto agiata, come vedrete, ch'ei punto non s'affretta, anzi torna spesso là d'ond'era partito, e si ferma e va intorno a diporto, il che non vorrei che fosse a voi di qualche disagio. Ei torna in India, ad esempio, per narrarvi i fatti del magno Alessandro, non secondo alcuna storia per vero dire, ma secondo qualche poema o qualche romanzo che doveva a' suoi tempi sembrar cosa troppo più bella. Da ultimo si rammenta che Aristotele, stato maestro a quel grande «fra l'altre cose l'ammaestrò ch'egli si guardasse dall'uomo reo più che da ogni altro animale, e insegnogliele a conoscere». Però, ei si risolve ad un tratto, «diremo di finosomia». Questo discorso, come ben pensate, può condurlo un po' lontano e da Alessandro e dall'India e da tutta la geografia. Lo conduce infatti a parlar de' temperamenti, delle qualità che lor corrispondono, ec. ec. La digressione par fatta colla scorta principalmente d'Aristotele, e non ve la do per piacevolissima. Ecco però di che farla, almeno una volta, rinscir piacevole a chiunque sì conosca di bel parlar gentile. Trattasi della vanità; «e Tullio del vanaglorioso pone una leggiadra figura dicendo così:»

«L'uomo, ch'è vanaglorioso, sempre si fa da più che non è. E alcuna volta tiene di questi modi. che quando è con forestieri, e vede passar un fante altrui, il chiama or per un nome or per un altro, acciò che paja a' forestieri uno de' molti suoi fanti, le cui nomora non possa tutte tenere a mente. E poi ch'è venuto gli dice vieni bellamente (gli dice bellamente vieni) che non facci villania a questi signori; e appresso gli si china all'orecchio, e dicegli alcuna vil cosa; e poi gli dice in alta voce, perchè l'odano i compagni, fa' che sieno ben serviti, mostrando d'avere forestieri a casa. E risponde '1 fante che bene lo 'ntende: per me non si potrebbe tanto fare, se non mi dessi anche de' fanti. Ed e' risponde : abbi con teco Stefano e Sofia (o Sosia), ed anche ne togli, se più te ne bisognano, e fa' che la cosa vada bene. E se, andando per la terra, incontrasse forestieri, i quali nella loro città 1'abbiano molto onorato o servito, si contrista nell'animo, ma non si parte però dal suo vizio naturale, e correli ad abbracciare, dicendo che sieno i ben venuti, e che hanno ben fatto che sono arrivati in questa città, ma che molto si duole che non andaro diritto a casa sua. E quelli dicono che ciò avrebber fatto se l'avessero saputi. Ed e' risponde che ciò era loro agevole se avesser domandato, tant'è conosciuto. Allora li volge e, facendo vista di menarlisi a casa, usa molte parole di suo vantamento, e menali al palazzo d'un suo dimestico e grande cittadino, il quale in quella mattina fa un grande convito. E, menatili dentro, per contezza che ha con que' della casa, dice: qui abito io, questa è casa vostra per tutte le volte che arrivate in questa terra. E questi guardano la casa, dicendo che bene abita. E stati un pezzo, e ragionato di più cose, viene un fante di quelli della casa e dicegli all'orecchie: dice messere che voi faresti cortesia di partirvi, però che vuol desinare con certi ch'egli ha convitati. Ed egli subito si lieva in piè, dicendo: perdonatemi ch'io non posso esser al presente con voi, però che questo corriere mi dice che fratelmo torna di Francia, ed ecci presso a tre miglia, e manda a dire ch'io gli vada incontro; ma non falli che stasera ceniate meco; e così escon di casa. E quelli, considerato il bisogno, chè pare a loro che cosi sia, tengono lo 'nvito per la cena e partonsi da lui. Ed egli se ne va, e rinchiudesi in casa, e non si lascia più trovare. E, all'ora della cena, tornano i forestieri alla casa d'onde sono da lui partiti la mattina, ed essendo lor detto che quivi non ha a far nulla, si tengono scherniti fortemente e tornansi addietro. E l'altro dì, iscontrandosi costui ne' forestieri, incomincia a lamentarsi, come la sera fece grande cena, e che molto fra notte gli aspettò, e come n'ebbe grande ira. Ed e' rispondono, come erano iti a quello albergo dove la mattina li avea menati, e come si tornaro addietro con vergogna. Ed e' rispomle che a quello albergo non vennero, ma errarono per cagione del porticale andando a un altro simile. E appresso dice: i' voglio che domattina per fermo desiniate meco, ed aspettatemi ch'io verrò per voi, acciò che non possiate più errare. E accettato ch'egli hanno, ed egli accatta da un suo amico un bello albergo fuori della terra e molti arnesi d'argento, e la mattina va per loro e menali nel detto luogo a desinare. E dice loro: certi miei amici, volendo fare stamane un gran convito, e non avendo abitazione dove potessero ben fare, di grazia mi chiesero casa mia, ed io, veggendo il bisogno, nolla seppi loro disdire, ed hovvi menati qui dov'io mi riposo la state, e perdonatemi. E quelli, guardando la casa e '1 giardino, piace loro molto e lodanlo assai. Appresso, desinando loro, colui di cui sono gli arnesi dell'argento, non confidandosi di lui, li manda per un fante richieggendo. E questi, veduto il fante, il chiama a se dall'una parte, e. saputo quel che domanda, dice in boce che l'odano i forestieri: prestata ho la casa e molti miei vaselli d'argento all'amico, e anche mi manda pregando ch'io gli presti questi che mi son rimasi; e, avvegna ch'io abbia forestieri, non vo' però lasciare che questi cotanti, che rimasi mi sono, non glieli mandi, ec.».

Che dareste, ditemi, per aver tradotte o travestite, non importa, le cose più belle e di Tullio e di tutti i classici in questa lingua divina? Se l'autore seguitasse innanzi traducedo così, chi si curerebbe ch'ei ripigliasse la sua via di geografo? Ma egli alfin la ripiglia, benchè non in questo punto; ed io non debbo indugiare a ripigliarla con lui. Ma fo uno sforzo veramente a non fermarmi almeno ove, in proposito della crudeltà, ei si ferma al giuoco degli scacchi, inventato, secondo il suo racconto, da un filosofo per correggerla in un re. Come, traducendo cose d'antichi, piaceva a' buoni trecentisti ridur tutto al moderno; così, descrivendo o narrando nuovi o antichi trovati, piaceva ridur tutto al morale. Del giuoco appunto degli scacchi voi ben ricordate con che leggiadria sel facesse Jacopo da Cessole, di cui mi duole udir sì di rado il nome. Accanto al libro d'Jacopo, quel che scrive il nostro autore, prendendolo di dove non so, è come una bella miniatura accanto a un bel quadro.

Ma orsù avviamoci con lui verso l'Europa. La via, ch'ei tiene per giugnervi, è tutta storica. Dalla Siria, ov' egli è col filosofo degli scacchi, si fa un ponte all'Egitto e alla Palestina, rhe va ricordato come esempio della speditezza del pontoniere: «questo basti degli scacchi; ora diremo di Moisè». E dice pure de' Patriarchi, dice de' Faraoni, dice de' re di Giuda, ec. Poi viene a' Greci, a' Troiani, ad Enea, di cui in più carte narra le vicende, ai re di Roma e a' principii della romana repubblica. Ed eccolo d'un balzo a Fiesole, a Fiorenza, a Pistoja, delle quali racconta più cose da Catilina fino ad Aitila. Ma di questo barbaro, sembra, ei prende gran paura. Quindi si rifugia di nuovo a Roma fra gli uomini della repubblica e gl'imperadori, d' onde torna poi un poco più tardi a Fiorenza per Perugia ed Arezzo, e, statovi un poco, passa a Vinegia.

Prima di tornare, grazie forse ai grand'uomini romani, si ricorda di quel che ha detto dei temperamenti, e pensa che i temperamenti, gli accidenti ec. son tutti soggetti alle costellazioni. Quindi «al nome di Dio e della gloriosa vergine Maria» si fa un almanacchetto astrologico, a cui succedono (ma d'altra mano che quella dell'autore) un recipe per diversi mali, un cosmetico per far bella la faccia, pitture di vizii prese da Dante, dal Petrarca, da Fazio degli Uberti ec.

La mano dell'autore ricompare, un po' prima che si tratti del ritorno a Fiorenza, in alcuni articoletti sturici e mitologici, a' quali in questo punto v'è impossibile di trovar un motivo. Vien quindi il ritorno a Fiorenza con quel poco di geografia italiana che ho detto, e a cui succedono, pur d'altra mano che dell'autore, altri pezzi di Dante. E qui i pezzi di Dante, scritti, come que' primi di lui e d'altri poeti, pel comodo che ne dava qualche carta bianca. non sono affatto fuor di luogo. Ciò non vi sembra al ricominciar che fanno gli articoletti storici e mitologici, i quali continuano questa volta per molte carte. Vi sembra poi quando scoprite, che gli articoletti son li per la spiegazione della prima delle tre cantiche del gran poema; scoperta che vi fa circolar più rapido il sangue nello vene.

Ma la rapida circolazione, amico mio, dura poco. Voi sapete bene che il vostro autore non può darvi alcuna singolar notizia d'antichi. Sperate però d'aver per lui qualche particolar contezza de'  suoi contemporanei. Ora i contemporanei ne' suoi articoletti non appariscono che di rado e per voi quasi inutilmente. Colui poi v'è (ed è il primo che vi sìa) che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, ec.; ma senza un pel di barba, se così possu esprimermi, che vel faccia riuscire più vivo o più nuovo. Vengon poi quelli che dicono Frati Godenti fummo e Bolognesi; vengou altri; e son tutti nè più nè meno quai da un pezzo li conoscete. Ma state, che un po' di nuovo l'autor ve lo dà partendosi un tratto da' contemporanei.

«Maometto (Vedi come storpiato è Maometto ec.) fu un grande prelato di Spagna, il quale, per la molta scienzia e sufficienzia ch'era in lui, fu mandato dal papa, e un altro con lui ch'ebbe nome Ello (se pur leggo bene), a predicare oltre mare agl'infedeli la fede cristiana siccome legati di papa con piena autorità in que' paesi. E avendo per un tempo predicato, il papa mandò per loro a privarli di quella legazione. onde Maometto e '1 compagno indegnati contro l'apostolico volsero mantello e predicaro tutto '1 contrario di quello che santa chiesa comanda, e convertiro e condussero alla loro falsa legge di molta gente, e ancor in que' paesi se n'osserva parte. E di costoro disse il maestro e poeta così, ec. ec.

Chi frammise alle cose antecedenti i passi poetici sopra indicati (e ben potrebbe, or che guardo meglio alla scrittura, aver frammesso anche l'almanacchetto astronomico) parve minacciare, con un «Nota tu che leggi» posto in margine, di far perdere a questo nuovo comento la sua novità. Grazie però alla buona fortuna , che qualche volta ha cura de' nostri piaceri, la nota si riduce a queste parole: «Maometto non fu prelato, ma fu nato d'Arabia e fu di vile nazione, e quello che s'accostò con lui a fare la falsa labbia fu uno prelato ch'ebbe nome Aly»; e la novità è abbastanza serbata.

Rimesso per essa di buon umore, mi par quasi di potermi contentare di quel che 1'autore ci dice più sopra e più sotto di Fra Dolcino, di Frate Alberigo, di Cristofano d'Arezzo, di Gianni Schicchi, di Buoso Donati, di Sassuolo Mascheroni de' Toschi, ec.

«Messer Buoso Donati (voglio pur darvene , per amor della lingua, qualche saggio) ebbe un suo famiglio (Gianni Schicchi) il quale, poi che messer Buoso fu morto, a stanzia de' nepoti (di messer Simone suo nipote, dic'egli nell'articoletto di Gianni, e così dice anche l'Ottimo) in persona del detto messer Buoso fece testamento, e lasciò a' nipoti ogni suo bene; e a se lasciò una bella mula ch'egli aveva e chiamavala donna; e così era di patto co' nepoti: e però disse Dante Per guadagnar la donna della torma ec. . – Sassuolo Mascheroni de' Toschi fiorentino, per avere la redità d'un suo ricco fratello, uccise un fanciullo ch'egli aveva, e suo nipote ch' era; ond'elli fu preso e fondato in un una botte chiavata intorno d'aguti (quest'orribile particolarità dall'Ottimo non si narra) e fu voltolato per tutta la città, e poi gli fu tagliata la testa, ec.».

Fra gli articoletti mitologici e storici son poste, ma da mano, troppo più recente di quella che frappose i passi poetici già detti, varie cose poetiche di Dante e d'altri, delle quali poi vi parlerò. Dopo gli articoletti si torna al discorso da tanto tempo interrotto delle qualità morali; e in mezzo a questo discorso si legge tradotto o parafrasato un altro passo antico, che voi non prenderete sul serio se non per la lingua.

«L'Eresio Teofrasto (o Tirtamo Teofrasto, chè non riesco a legger bene) essendo domandato da un suo amico se egli il consigliava ch'e' togliesse moglie o no, così rispuose: Se la femmina che ti viene alle mani è giovane, grande, bella, ben constumata, e virtuosa di saper fare e dire ciò che al tuo stato s'appartiene, e sia di buona e onesta vita, di schiatta ch'a te sia il suo parentado accrescimento di stato, e con questo ti rechi a casa di dota quello ch'a te si conviene, e tu ti senta e sia savio, ricco e virtuoso di pazienzia, puossi fare. Ma perchè rade volte s'accordano tutte queste cose, ed è quasi impossibile, nolla torre; però ella è impedimento dello studio e quasi d'ogni bene adoperare. Ancora alle donne bisognano molte cose, a ciascuna secondo suo grado, che non sono leggieri ad avere. Perocchè, come maggiore è lo stato, maggiore ornamento e maggiore spesa richiede. E la femmina è insaziabile, vuole ricchi vestimenti, oro, perle, gemme, vai , giojelli , masserizie e ornamenti nuovi che non sieno mai veduti a persona, acciò ch'ella vantaggi tutte 1'altre; e ciascuna vuole esser quella, e questo è impossibile. Vuole fanti , fancelle a suo modo e non a tuo, e, se questo non fai, avrai continue battagli e di dì e di notte, e , non considerando tuo podere, ti dirà: cotale e cotale e altrettale, che non son buone com'io, sono adorne di tale e di tale cosa, ed io cattiva non posso apparire tra le donne, pognamo che 'l biasimo sia tuo. E questa battaglia non finirà se tu non aempi sua dimanda, e, fornita che 1'avrai, ricomincierà da capo per nuovo desiderio. E però nolla torre. Ancora, se tu nolle piacerai, ella t'avrà in dispregio e penserà ad altro. E, se avrai alcun difetto, sarai mal servito da lei. E, se tu le vedra' fare alcun sembiante ad altrui, mai non dormirai sicuro per gelosia, e sempre viverai malinconico, accidioso e tristo, nè a te piacerà l'usanza altrui nè ad altrui la tua. E, se tu le piacerai e siele in amore, se guarderai altra femmina che lei, ed ella se n'avveggia, pensa d'avere in casa poca pace; e, se ti vedrà parlare colla fante, ti dirà che tu non sia da altro che da strofinacci. E però nolla torre. Ancora, s'ella non avrà figliuoli di te, dirà che tu non sia da nulla e penserà ad altro. E, s'ella n'avrà di te, le raddoppierà il rigoglio e la baldanza, e non potrai vivere se tu non farai ciò ch'ella vorrà. E però nolla torre. Ancora, se tu se' povero e prendi moglie e abbine figliuoli, se prima avevi assai di notricare te, e poi ti converrà notricare te e loro, pensa come tu starai. E però nolla torre. Ancora, se tu se'ricco, sempre viverai in tormento con lei per le molte sue dimande, come detto è di sopra. Ancora tu dei sapere che non è sì vile animale nè sì caro, che innanzi che si comperi non si pruovi, se non la moglie. Però che s'ella è matta o sozza o con molte magagne e scostumata, prima ti se' legato che tu '1 sappi; e sai che questo legame non si puote iscioglicre se non colla morte. Ancora, o bella o rustica ch'ella sia, sempre la ti converrà lodare. O piacciati o no, ti converrà dire ch'ella ti piaccia sovra tutte l'altre. E, se cosi non farai e tu guardi dell'altre, crederà di spiacerti e dirà che tu la sdegni. E quando farai saramento per mostrare che tu l'ami, parlando con lei, ti converrà dire: se Dio mi ti guardi e salvi lungo tempo. Ancora ti converrà contra tua voglia spesso amare e onorare cui ella amerà. E però nolla torre. Ancora le ti converrà dare signoria di ciò che tu hai; e, se nol farai, dirà che tu non ti fidi di lei, e avratti in odio, e disiderrà la morte tua, e farà quanto male ella potrà, ispendendo e gittando il tuo in indovini e in malie, e faccendo questo è da temere ch'ella non caggia in avolterio, e volendola guardare, essendo disonesta, è impossibile. E però nolla torre. Ancora, s'ella sarà bella, sarà da molti amata e vagheggiata e disiderata. E quella cosa, ch'è bramata da molti, malagevolmente si guarda, e molte volte se ne rimane perdente. E a chi è tolto l'onore di sua donna non debb'essere mai contento. E però nolla torre. E s'ella è rustica e sozza, e spesse volte ama e disidera altrui, e da molti è schernita; ed è molesto a possedere quello che niuno degna di volere. E non avere per piccola afflizione, anzi per continua morte, vederti sempre innanzi, al mangiare, al bire e al posare, quella cosa che tu hai in odio e in dispetto. Ma minore miseria è aver sempre la sozza che guardar sempre la bella. Perocchè chi per cortesia, chi per bellezza, chi per prodezza, chi per pecunia, e chi per molti altri diversi ingegni che dir si potrebbono, alcuna volta vince; e spesse volte è vinta la cosa che da molti è combattuta. E però nolla torre nè rustica nè bella. E se tu vuo' dire: i' voglio moglie, perchè dispensi i fatti di casa, e nelle mie infermitadi mi conforti e ajuti, rispondati che troppo meglio dispensa un fedel fante. Però che 'l fante naturalmente disidera di piacere al signore, e la moglie non ama tanto il marito ch'ella non pensi sempre: io son donna. E allora le pare esser ben donna, quand'ella contrasta bene al marito, e quand'ella fa bene il piacere di se e non quello che 'l marito le comanda. Ancora, se la donna vede porre il marito a giacere per infermitade, incontanente nel suo animo il fa morto, e pensa più come dopo lui rimagna e come possa poi rimaritarsi, ch'ella non pensi dello scampo del marito ch'ell'ha. Ancora, più fedele ti fia un fante aspettando da te beneficio, che la moglie che non crede che tu sappi viver senza lei. E, se avviene che tu abbi moglie bella e buona e savia, che rade volte avviene, d' ogni male, che tu le vedi, è, le due parti, tuo. E però nolla torre. Se tu vuo' dire: i' voglio moglie per acquistare famiglia, acciò che 'l mio nome non venga meno, e che in vecchiezza m'aiutino i figliuoli, e che, morendo, sia chi redi il mio, rispondoti che ciò è stolta cosa. Or che utilità abbiamo noi, poichè siamo passati di questa vita, perché 'l nostro nome sia molto ricordato? Poi che tu se' morto, già non è tìgliuolto chiamato per lo tuo nome, e, se pur fosse, nullo nome è che molti non ne sien nomati. E se tu di': figliuolmo m'aiuterà in vecchiezza, chi ti sicura chc figliuolto viva quanto tu? E se pur vive, o sarà buono o sarà reo. Se fia buono e piccolo d'anima e di corpo, timetterai (frequentativo di temere, se non è scritto o da me letto male); e, se gli vedrai percuotere il piede, parrà che ti sia percosso il cuore; se infermerà, parrà essere infermo te; e se morisse non saresti mai lieto. E, se fia reo, non farà cosa che tu voglia, e metteratti in briga e 'n guerra, potrebbe esser morto da altrui o fare uccider te, e potrebbe avere di molti malvagi vizi, e nella tua vecchiezza disiderrà la tua morte per rimanere libero. E se avrai figliuole femmine, e quanti pericoli non possono avvenire? Gli buoni amici (uno de'soliti anacronismi de' nostri vecchi traduttori) non t'impediscono la salute dell'anima come fanno i figliuoli. E, se t' abbatti a femmina rea e garritrice, pensa come tu stai, che ognora, vivendo, muori. E però, considerate le dette ragioni e moltissime che 'ntorno a ciò si potrebbero allegare oltr'a queste, e avendo rispetto, per lo bene che ti voglio, alla tua consolazione, conchiudendo protesto e dico che non togli moglie, se tu non vogli star sempre con doglie».

Indi seguono sentenze d'antichi non disformi da questa lunga lezione, e storielle pur d'antichi, anch'esse mirabilmente tradotte, che sembrano confermarle. Alle quali sentenze e storiella una numi, posteriore aggiunse un sonetto di Buto Giovannini ad Antonio Pucci, Antonio mio di femmina pavento ec., ed un altro del Pucci che risponde La femmina fa l'uom viver contento, ec. (non so se trovinsi nelle raccolte) con alquante sentenze e storielle che fanno alle prime giusto contrappeso.

Di mano dell'autore vengon subito dopo storielle d'uomini celebri per scienza, tra i quali Virgilio, grande astrologo, se nol sapete, e che mai non v' imaginereste quello che per astrologia e in vita e in morte abbia fatto. «E dirotti parte delle cose che fece mirabili per la detta arte; e quantunque pajano a grossi uomini favole (vi serva l'avviso) perchè i loro cuori nolle possono comprendere, abbi quelle che udirai per vere e per molto piccole a rispetto dell'altre che fare si potrebbero per la detta arte, ec.». Udite dunque se non siete di que' grossi.

«Trovasi ch'egli (Virgilio) fece una mosca di rame, che dove la pose niuna mosca appariva mai presso a due saettate che incontanente non morisse.— Fece un cavallo di rame, che qualunque altro cavallo vivo fosse, fosse con qualunque malizia, incontanente, veduto quello, lascia ogni difetto. —Fondò una città ovver castello in su uno uovo, e, quando l'uovo si menava, tutta la terra si crollava, e alcuni dicono che è il castello dell'Uovo di Napoli che ancora è in piede. — Fece un ponte molto lunghissimo tutto di marmo, che non fu mai maestro che sapesse dire in che modo per magistero umano potesse essere fatto. — Fece un giardino che non aveva altra chiusura che di nuvoli bui , e niuno ardiva d'entrarvi se da lui non fosse guidato. — Fece due doppieri che sempre ardevano, e non si potevano spegnere, e niente si logoravano — Fece una lampana che sempre ardea sanza mettervi olio o altra cosa. — Fece a una città.... (ma qualche Fece per decenza debbo tacerlo: non vi dirò che l'ultimo) — Fece una testa d'uomo, di rame, con tanta maestria, ch'ella rispondeva a ciò ch'egli domandava. E una volta fra l'altre la dimandò d'un viaggio ch'egli doveva fare. e come ne dovesse arrivare. La testa gli rispose: se guardi bene la testa, arriverai bene. Virgilio intese di quella testa e non della sua, onde, preso cammino, il sole caldissimo gli percosse la testa tutto giorno, e gravollo sì ch'egli se ne puose a giacere: e, crescendo il male, ordinò d'esser soppellito a uno castello fuori di Roma. Nel quale, poi che fu morto per la detta cagione, fu soppellito, e ivi sono ancora l'ossa sue, le quali si solevano molto guardare. Però che una volta i Romani le vollero recare in Roma, e, com'elle si furon mosse, il mare si turbò maravigliosamente, e gonfiò si forte, che '1 castello e Roma ne fu a pericolo, e, riposte l'ossa nel luogo loro, tornò in bonaccia, ec.».

Credulo a queste meraviglie, il buon uomo, che le narra, dovea trovar troppo bello il parlar dell'arte per cui furono operate. Ma pare che intorno a questa ei non avesse alla mano che alquanti versi d'un altro uom credulo, benchè troppo più dotto, ch'ei pone dopo l'astrologo Virgilio. «Benchè ispartitamcnte abbiamo in alcune parti di questo libro messi de' versi del mastro Cecco, perch'egli fu maestro in astrologia, ne diremo brevemente alquanto, ec.». Quel che ne dice, conciliando alla meglio la devozione o la paura colla credulità alle meraviglie d'un'arte condannata, contiene quella risposta perentoria, che già v'accennai, all'osservazion dell'erudito, il qual volea scritto questo libro innanzi alla morte di Cecco. «Mastro Cerco d'Ascoli, isperto nella detta arte dell'astrologia, in parte volle entrare tanto adentro, che infine dallo inquisitore di Toscana in Firenze, sotto la signoria del duca di Calavria, figliuolo che fu del re Uberto di Puglia, fu arso il corpo e le scritture sue, e ciò fu nel 1328. Ma nondimeno scriveremo appresso alcuni de' suoi detti, non intendendo contro santa chiesa ec. ec.».

Ai detti di mastro Cecco succedono detti di filosofi, Pitagora, Socrate, Platone, Democrito, Aristotele, Cicerone, Seneca , ec.; poi fatti d'uomini illustri; poi di nuovo detti di filosofi.

Indi viene un trattatello de' doveri di ciascuno, cominciando da' fanciulli «che bisogna ammaestrare, dice l'autore, perchè vegnano a virtù». Com'egli intenda l'ammaestramento m'increscerebhe il dirlo, se fosse colpa dell'uomo quella ch'era colpa del secolo. «E sopra questa parte (è l'autor che prosegue con una ingenuità e una grazia che fa assolvere la sua involontiria durezza) ti voglio dire un sonettello di nostro legname: Quando fanciul piccolino iscioccheggia, Correggil con la scopa e con parole; E, passati i sett' anni, sì si vuole Adoperar la sferza e la coreggia, ec.». Le idee del secolo già sono in tutti gli altri capitoli (semplicissimi e leggiadrissimi quasi tutti) che succedono al primo riguardante i fanciulli. In quello che riguarda il capo della cristianità vi parranno singolarmente notabili, come avvertimento di non obliare le idee dominanti in un secolo, quando si giudica delle azioni degli uomini che in quel secolo tennero i primi seggi.

«Papa debb'essere pieno di santità e de' fare a suo podere osservare tutti i decreti e costituzioni papali fatte per li santi apostolici passati. E dee nelle parole e nell'opere servare la vita di S. Piero. Debb'esser fonte d'umiltà, di mercede e di misericordia, facitore di pace e struggitore di guerra, pastore de' pastori, consiglio delle anime e campione di santa chiesa E deesi sforzar di recare a suo podere gente alla santa fede di Cristo, e colla santa scrittura, nella quale debb'essere soffìciente e sperto, dee allumare i ciechi della fede cattulicti, ed eziandio in atti d'arme dee operare, per ogni modo che far puote, che saracini e pagani, e tutti quelli che sono contra la fede di Cristo, si riconoscano, e, dove ciò non facessero, ispegnerli a suo podere, e conservare nella santa fede quelli che vi sono, ec.».

Il trattatello si chiude fra il discorso di men rigidi doruri, con alcuni capitoli cioè riguardanti donne e donzelle. i quali fanno strada ad un trattatello che succede d'amore e di cavalleria. Ivi fra galanti quesiti e galanti soluzioni trovasi questa pittura, che ci ricorda il Firenzola e l'Ariosto, e che l'Ariosto forse non che il Firenzola potrebbe invidiare al nostro vecchio scrittore.

«Bella donna, compiutamente bella, dee avere in se le 'nfrascritte qualità; cioè abbondante di capegli biondissimi, simili a fila d'oro sottile, sovra il capo bene rispondente allo 'mbusto; orecchi condicevoli con bella forma; testa ovvero fronte ampia e candida, senza alcuna ruga o altra macula; ciglia brune e sottili in forma d'arco, per modo che, aggìungnedone tre insieme, facessono un tondo cerchio e con convenevole altezza; occhi, che per loro vaghezza mostrino non occhi ma piuttosto divine luci, e non nascosi nè soperchio palesi, con isguardo non isfacciato ma onestissimo e vago; candide e rotonde guance, di colore simili a latte e sangue mischiato insieme, e di convenevole grandezza; naso affilato e ritondetto, con quella misura e forma che la faccia richiede e quanto conviensi; sottoposta a esso la bella e piacevole bocca di piccolo spazio contenta. non abbondante di labbra , ma di dicevole forma, e colorata di naturale vermiglio; denti piccioli, con convenevole ordine, di bianchissimo avorio, e simiglianti; bellissimo mento, con picciola concavità, e non di soperchio soprastante; gola candida a cinghiata di piacevole grassezza; diritto e delicato collo di convenevole lunghezza e grossezza, omeri diritti ed uguali, bene rispondenti all'altre parti; ed, appresso ispazioso petto, le coperte mammelle, con piccolo rilievo e non di soperchio apparenti sopra panni, ma che mostrino per loro durezza resistere alli sottili vestimenti e non di soperchio grossa incintura; braccia distese, con debita grandezza e forma; mano dilicata e bianchissima, senza alcuna apparente vena con lunghe dita e sottili quanto si richiede, ornate di belle e care anella; corpo bene composto, e con bella statura e forma; gambe formate, bene rispondenti allo 'mbusto; piede picciolino e diritto senza nocchi; ed avendo tutte le sopradette bellezze (si dee comprendere che la celata parte a tutte l'altre graziosa risponda) dee avere portamento e convenenza».

Il trattatello d'amore e di cavalleria potrebbe anch'oggi piacere ai nostri galanti. Quello che segue de' sogni con «breve sposizione delle significazioni delle cose sognate» sarebbe oggi un tesoro pei nostri giuocatori di lotto. Per chi studia la lingua non v'è da imparar molto leggendo: «Braccia ornate avere amicizia significa; Dente mascellare cadere morte di suo prossimo significa; Vasi voti o scemi mancamento di guadagno significa, ec.». Per chi gioca al lotto v'è a trarne induzioni e combinazioni da salir ritti fino al ciuffetto della Fortuna. Ma state: la breve sposizione è pur buona ad altro. È buona anch'essa a mostrarci come le idee si mutino coi costumi; e forse a consolarci colle idee vecchie della tristezza che può talora assalirci in forza delle nuove. «Barba rasa, è detto in essa, vita pericolosa significa». Anche supposto un progresso sì rapido come quello, con cui la moda ci ha fatto passar da' pizzi lungo le guance alla barba sotto 'l mento, ci vorrà credo un po' di tempo prima che la barba rasa torni a significare quel che significava nel trecento. «Volpe o lupo vedere, leggo pur nella sposizione, buona novella e buon messo significa». E questa è cosa da consolarci anche fuor di sogno, massime al presentarsi di volpi e lupi, che i naturalisti non nominano ma che pur il mondo chiama così.

Più sopra (obliai di notarlo), fra il luogo ove trattasi della fisonomia e quello ove trattasi de' temperamenti e delle qualità che lor corrispondono, 1' autore fa, per così dire, il suo più gran volo filosofico, spiegandoci il simbolo delle Parche. Qui ci dà il suo più gran saggio d'erudizione, dicendoci l'origine del Calendario.

Al qual discorso, che non è lungo, si lega abbastanza bene il trattatello che segue di ciò che convenga fare in ciascun giorno. E al trattatello, che non ha molto che fare, già ben vel pensate, coll' Impiego del Tempo del passato direttore della Rivista Enciclopedica, si legan pure abbastanza bene alcuni precetti, che seguono, intorno alla coltivazione, presi dal trattato di Palladio. Io non ho avuto agio di confrontarli col vecchio volgarizzamento di questo trattato che dal 1810 abbiamo alle stampe. Ma non credo che sien parte di esso, poichè non sovviemmi d'avervi trovato nulla di quel che in esso e in altri vecchi volgarizzamenti suol notarsi come segno che furon fatti sul cadere del buon secolo.

Quindi io credo che e i precetti e l'altre cose quasi tutte che li precedon nel codice, e quelle che lo seguono, questioni naturali, definizioni ec., e da ultimo il discorso delle quattro età del mondo fino al giudizio, sieno all'incirca del tempo di Gio. Villani, del qual si recano innanzi a questo discorso più cose relative a varie città e a Firenze specialmente. L'autore, dicendo il perchè dall'ultima patte dell'opera sua, ci dice egli stesso qual fu la sua intenzione nel comporIa, e ci dà quegli indizi di se, che forse potrebbero condurci col tempo a scoprir chi egli fosse, il che non può esserci indifferente trattandosi di scrittor così aureo.

«Perchè cominciammo dal principio del secolo, è stato convenevole finire la nostra impresa colla sopradetta materia, che pertiene alla prima, cioè colla fine del mondo, pognamo che secondo il proposito nostro (il quale fu di raccogliere molte storie e altre cose notabili, che per diversi libri si trovano in lunghezza di scrittura, e quelle recare, secondo il mio povero intelletto e senza alcuna scienzia, sotto brevità di parole) il presente libro quasi mai non chiederebbe il fine, tante son le cose che scrivere si potrebbono. Ma, come disse il sommo poeta Dante, la cui autorità pur puosi dianzi, Io non posso trattar di tutti a pieno, ec. ec. Priegoti, compare, che rimanghi contento di quella parte che, a tua consolazione e di tutti quelli che frutto o diletto n'avranno, scritta è per me con molta fede. E perchè molto brieve passammo de' fatti del giudicio, colla grazia di Dio, so tanto m'allungherà la vita, intendo in questa medesima maniera scrivere delle cose spirituali brievemente, delle pene de' dannati e della gloria de' beati, alla quale per sua santissima misericordia ci conduca il Salvatore qui vivit et regnat, etc.».

Per poter aggiugnere ove sembrassero star meglio storie e nltre cose notabili, più carte, siccome già vi accennai, furon lasciate bianche nel codice, e quindi empite posteriormente ma non di sole storie e altre cose notabili. Vi dissi d'alcune pitture e altre coserelle tratte da diversi poeti. Il frontispizio moderno ne indica altre, le Canzoni, cioè, o come son dette nel codice, che ne dà il titolo in latino, le Cantilene di Dante. Oltre di queste però avvi uno Cantare di Tristano da Cornovaglia in ottave, cbe non so dirvi se sia cosa inedita, o tratta dal libro di Battaglie di Tristano e Lancellotto che fu impresso la prima volta sulla fine del secolo decimoquinto, o dall'Innamoramento di Tristano e d'Isotta che il fu sul declinare del decimosesto. Vi hanno pure tre canti, anch'essi in ottave, d'un poema sulla Guerra di Troia, che non credo stampato mai, e che non so neppur dirvi se da alcuno sia stato mai veduto intero. Se le ottave valessero alquanto più, io pure mi sarei dato qualche pensiero di più per indagarne l'origine.

Non oserei dirvi che queste ottave sieno scritte nel codice innanzi al secolo decimoquinto. Esse anzi mi sembrin di mano di chi scrisse nel 1439 una nota di spese che trovasi in fine del codice stesso. Scritte forse negli ultimi giorni del secolo antecedente (da uno de' Benci, il qual dice d'aver comperato il codice nel 1397) sono la famosa Canzone dell'amico di Dante, intorno alla quale abbiamo il comento di Dino del Garbo, e le Canzoni già dette di Dante stesso, quelle cioè che dovevano essere esposte nel Convito, e che sole si trovan riunite ne' codici più vecchi.

Di queste Canzoni feci già un po' di confronto in compagnia dell' amico Ajazzi colle stampate dell'Arrivabene e colle manoscritte d'un bel codicetto del secolo decimoquinto, già della casa Somaja (la casa de' begli affreschi del Sangiovanni che raccomando al cielo a cui sono esposti e agli uomini che n'hanno sì poca cura) poi del Piatti, ed oggi del prof. Witte, che se l'è portato a Breslavia. Il bel codicetto conferma per lo più la lezione dell'Arrivabene. Il codice, che alfin dirò miscellaneo, non dà quasi per varianti che errori gravissimi d'amanuense. Qualche cosuccia però, l'uno di qualche particella, il modo più antico e più poetico con cui qualche parola vi è scritta, mi fanno pensare che anche questo codice non si consulterebbe indarno per un'edizion novella.

ll Witte pensò di trovare nel bel codicetto non so qual conferma di quella sua opinion che sapete del legame che han fra loro le varie opere di Dante. Nel codice miscellaneo sperò forse di trovarla a quella, cui seguì, credo, nell'edizion sua delle Rime di Dante stesso, e di cui parlò nella sua lettera al Triulzio inserita dal Monti fra le note della prefazione al Convito. Però, quand'egli pocanzi fu qui, si mostrò ansiosissimo di vederlo; ciò che, standosi il marchese Tempi in villa, non potè. Ma vedendolo (di ciò mi sono accertato dopo il ritorno del marchese) avrebbe trovate le Canzoni in ordine un po' diverso dal solito delle stampe; non avrebbe trovato alcun indizio di quell'ordine primitivo ch'egli sì ingegnosamente ideò.

Altre canzoni e alcuni sonetti sono aggiunti nel codice come cose di Dante, ma da mano assai posteriore a quella che scrisse le Canzoni già dette. Alcuni de' sonetti sono pur dati come cose di Dante nelle Rime stampate di questo poeta; e così tre delle canzoni. Una: Io fui ferma Chiesa e ferma fede è pur data come sua in qualch'altro codice, ma in alcune stampe, se ben mi ricordo, è data come cosa del Boccaccio. Un'altra canzone, non di Dante sicuramente, ma non priva affatto di spiriti danteschi, Increata virtù del somino cielo, Volgi gli occhi pietosi a guardar noi, Che siam carcati perchè siam /tua gente, parmi d'averla anch'essa trovata in altri codici, ma non in alcuna raccolta stampata, non in quella dell'Allacci, non in quella del Valeriani, e non in quella sì abbondante del Villarosa, sicchè quasi la direi inedita.

Alcuno degli ultimi possessori del Codice , che par rimanesse fin oltre la metà del secolo 15.° nella casa de' Benci, scrissero, ne' riguardi del codice stesso, or poesie latine, or note di varie specie. Fra le note non avvene forse alcuna che meriti d'esser ricordata, se non quella del giorno e dell ora (26 Agosto 1439 sulle 23) in cui partirono i Greci. Fra gli epigrammi v'è quel che già sapete pel sepolcro del Boccaccio; ve n'è uno a me nuovo per un Francesco cieco organista sepolto in S. Loren-zo; v'è quello conosciutissimo Vita et Mors Hermafroditi, attribuito già al Panormita, e dall'Affò, mi dice il nostro bibliotecario Magliabechiano, rivendicato a Pulice Parmense; ve n'è pur uno, che m'è sembrato non nuovo, per una sposa giovinetta morta nel vigesimo suo anno, un altro che pur m'è sembrato non nuovo per un fanciullo affogatosi in un fiume allo screpolarsi del diaccio su cui sdrucciolava. Non vi potrei dire se fra essi ve ne sia o no qualcuno d'inedito. Nè il ricercarlo parmi che valga il sagrifizio d'una passeggiata di quest'ottobre incomparabile, che mi avrebbe fatto invidiosissimo di voi e d'ogn'altro villeggiante, se non avessi avuto per compenao alle Bell'Arti il Pier Capponi del Saltarelli, alla Pergola il second'atto del Guglielmo Tell del Rossini.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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