Lettere intorno ad alcuni Codici della libreria del marchese Luigi Tempi

Lettera terza

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L'autore delle famose lettere di Giunio, critica severa, come sapete, del ministero di lord North e del duca di Grafton, anzi di tutti i cattivi ministeri parsati e futuri, scrisse fra il 772 e il 775, e consegnando il suo scritto al Public Advertiser mise gran curiosità di sapere il suo nome in tutta l'Inghilterra. Pure il suo nome, dopo ricerche e congetture senza fine, è ancora un mistero, ché la sentenza di Brunet , il quale attribuisce la lettere a Boyd, non sembra punto definitiva. E la disperazione, io penso, ha dato credito alla novelletta, ch' essendo quel nome stato confidato in gran segreto a quattro segretissime persone, 1' una delle quali ancor vive, quando anch'ella andrà a raggiugnere chi lo portò in questo mondo, lo troveremo alfine nel suo testamento. L' autore del trattato inedito della Repubblica Fiorentina, il Giunio, starei per dire, de' primi tempi medicei, scrisse, come già intendeste, verso il 538, non consegnò a nessun pubblico avvertitore il suo scritto, lo nascose forse gelosamente, per non accrescersi, ovunque allor vivesse, i pericoli; e voi volete ch'io oggi, prima ancora d'avere scoperto, se di questo suo scritto ci rimanga altro che i capitoli da me veduti, vi sappia dire com'egli si chiamò? Chi potesse scorrere da capo a fondo quella Storia degli Scrittori Fiorentini del Negri colle postille manoscritte del Gori, ch'io mi sono pur tenuta dinanzi qualche eretta nella Marucelliana; chi potesse rifrugar ben bene la Biblioteca volante del Cinelli con que' sei o sette volumi d'aggiunte fatte ad esse dal Biscioni, che rimangono inediti nella Magliabechiana, forse vi troverebbe qualche filo, per condursi alla meglio nel labirinto delle supposizioni. Ma io, lo vedete da voi, per ora ho altre faccende. Quindi, lasciando in pace l'anonimo e il suo trattato, di cui parmi aver mostrato abbastanza s'io tengo conto, vengo ai frammenti del Varchi , i quali formano la terza ed ultima parte del codice, di cui presi a parlarvi, e mi daranno occasione di parlar oggi anche d'un secondo.

Parecchi di essi appartengono all'undecimo libro della Storia Fiorentina; alcuni pochi al decimoterzo; altri pochi al decimoquarto; alquanti più al quindicesimo, ed alcuni al seguente ch'è l'ultimo. Tutti sono dell'istessa mano, che copiò il proemio e il frammento del primo libro, di cui vi dissi nella mia prima lettera. Tutti, confrontati colla stampa, sia con quella di Colonia cioè d'Augusta fatta nel 1721, e seguita poi dalla milanese del 1803 , sia con quella di Leida senz'anno, ma che sappiamo essere del 1723, e per la quale fu adoperato un testo diverso che per la prima, danno qualche piccola variante. Uno anche la dà non piccola; e persuaso di farvi piacere fra poco ve lo trascriverò.

Ma prima è necessario ch'io vi dica qual sia la loro autorità. E, per dirvelo in modo sodisfacente, mi viene opportunissimo quel secondo codice, di cui vi facea motto pocanzi. Anch'esso è cartaceo e in foglio, ha 98 pagine, tre delle quali non scritte, ed è tutto di mano del Varchi, di che fa fede a chi non potesse chiarirsene per altri confronti una lettera autografa del Varchi medesimo a Iacopo Vettori, la quale vi è inserita. Esso è dal Varchi, a principio della 7 pagina, ove cominciano i frammenti, pe' quali or ve ne parlo, intitolato libraccio, e porta scritto per traverso sull'ultima cose seguite nel 29 e nel 30. Contiene primieramente una specie di prologo, il quale ora si riferirebbe alla più lunga parte del libro nono, alla «digressione, cioè, intorno il sito, entrate, costumi e dominio di Firenze»; ma che pur giustifica il titolo pocanzi indicato. Poichè, dopo alquante parole, conformi in parte al principio della digressione già detta, qual si legge in istampa, ma d'onde può inferirsi che tal digressione, secondo il primo concetto dell' autore, dovesse essere introduzione alla storia, vengono quest' altre: «perchè quest'opera ricerca assai tempo e diligenza, noi, andandoci preparando, noteremo in su questo libro quanto giornalmente ci occorrerà, per ridurlo poi con più agevolezza a quell'ordine che ci parrà conveniente, ec.». Al prologo succede un elenco di cose corrispondenti ai quattro capi della digressione o introduzione accennata. Indi, fra quest'elenco ed un altro, che s'intitola ordine della Storia, ma ove non sono indicati che i principali capi de' primi sei libri, leggesi questo ricordo, ripetuto in altri autografi o librarci, che poi nominerò, onde si vede come il Varchi lo volesse aver sempre dinanzi per norma al suo serivere: Verità, Prudenza , Gravità , Leggiadria. Poi vengono i frammenti già accennati, i quali appartengono tutti al libro undecimo, e il primo de' quali corrisponde a quel passo, che negl'indici della stampa viene intitolato «caso e valore d' Anguillotto da Pisa»; l'ultimo a quello, che, secondo gl'indici stessi, s'intitola «il Ferruccio fatto ammazzare barbaramente dal Maramaldo». Questi frammenti o sbozzi, che vogliam dire, i primi forse, che il Varchi andasse giornalmente gettando sulla carta, non sono un'intera metà de' trascritti nel codice più grande. Quel codice, come accennai, ne racchiude di quattro altri libri; e veduta la provenienza di quelli d'uno, era naturale il pensare che non l'avessero dissimile i rimanenti.

Il Moreni nella sua Bibliografìa Toscana ci avea detto e il Gamba nella sua Serie di testi di lingua ci avea ripetuto, che in un codice della Laurenziana si trovano cose inedite appartenenti alla storia del Varchi; ed io doveva affrettarmi a visitare quel codice. Esso non è molto voluminoso, ma pure è il doppio dell'autografo che già vi ho descritto, onde a prima giunta presi speranza di trovarvi assai cose al mio uopo. Vidi però tosto che per buona metà consiste in semplici appunti segnati con tanta fretta, che appena vi si raffigura la mano del Varchi, e pel rimanente in sbozzi di sbozzi, se così posso esprimermi, alcuni spettanti al libro decimo, altri all'undecimo, fra cui distinsi non so che intorno alla morte del Ferruccio già detta, alla presa d' Empoli, all'uscita di Caterina de' Medici dalle Murate, alla perfidia di Malatesta, ec. In principio del codice leggesi in un foglio volante un ricordo relativo ad una prima copia della Storia sino al 14 libro inclusive, cioè fino a tutto il 1533, un anno più là, che il Varchi, quando fece il prologo al piccolo autografo, che già si disse, non doveva essersi proposto. Ciò almeno sembra potersi argomentare da queste parole del prologo medesimo: «laonde ho giudicato non solamente utile ma necessario il fare un libro della Repubblica Fiorentina, cioè del modo e forma del governo di Firenze, cominciando dal suo primo principio infino al 1532 , quando spenta del tutto la libertà e la licenza, se ne fece capo per non dire tiranno Alessandro de' Medici». In quel ricordo, che tiene due pagine, è detto che i primi otto libri della storia già trascritta sono di mano di Lelio Bonsi (il narratore, se vi rammentate, del Dialogo dell'Ercolano); gli altri, parte di mano del Bonsi medesimo, parte del Varchi, il qual ciò nota indicando alcune mutazioni fatte e da farsi.

Per rinvenire altri autografi più confacenti al bisogno, io non potei rivolgermi alla Riccardiana, ove, tra tanti codici urbani, di cui è doviziosa, già sapeva non esser nulla di mano del Varchi, appartenente alla sua storia. Mi volsi quindi al graud'emporio della Magliabechiana, ben pensando che il corso de' tempi qualche cosa doveva avervi portato di quel ch'io cercava, ma non quanto vi ho trovato. Poiché, per tacere de' vari autografi di tutta la Storia, qual più moderno, quale non più antico d'altro della Laurenziana, che nel catalogo del Bandini è detto saeculi XVI exeuntis; per tacere di vari volumi di materiali adunati per quella storia, ed ove apparisce di tempo in tempo la mano del Varchi; per tacer finalmente d'un volume, ove son raccolti frammenti della prima copia della storia, spesso corretti, qualche volta rimutati per intero, un po' ne' margini un po' fra verso e verso, da questa mano instancabile; avvi un gran codice, il qual contiene non solo gli sbozzi di molti de' frammenti trascritti nel tempiano, ma altri in gran numero. Essi provengono tutti dalla Strozziana, onde passarono alla Magliabechiana tant'altri manoscritti preziosi; e il dotto bibliotecario Follini, che li ha ordinati, vi ha pur notato diligentissimamente, confrontandoli colla stampa: qui la stampa cessa, qui varia, qui ricomincia. Ve l'ha notato, dico, per quanto potevasi fra tanti pentimenti, ripetizioni, ec., onde gli sbozzi principalmente del primo, nono e decimo libro riescono sì voluminosi. E forse alcuni, che si crederebbero supplementi, non sono propriamente che passi trasposti o per nuova divisione di materie o per maggior esattezza cronologica o per altro. Di che ho avuto indizio, quasi al primo aprire il codice, gettandomi, com' era naturale, sugli sbozzi del primo libro, per la speranza che qualche cosa mi presentassero oltre il noto frammento ch'è stampato. Al leggervi marginalmente in un luogo: quel che segue manca nella stampa; e al vedere che quel che segue è due volte il frammento medesimo, il cuor mi batteva di contentezza. Ma questa fu di corta durata, poiché dopo una pagina e mezzo, circa, di materia poco altro che genealogica, mi accorsi d'entrare in quella che forma oggi il secondo libro. Da tutti insieme gli sbozzi così del primo come degli altri libri si raccoglierebbero, se un'occhiata superficiale non m'illude, cose abbastanza pregevoli. Se non che mancano al codice magliabechiano, oltre gli sbozzi contenuti ne' due piccoli autografi tempiano e laurenziano, quelli de' libri quinto, sesto, settimo, ottavo e quattordicesimo, che converrà cercare altrove, forse nella libreria del marchese Rinuccini, il qual ora è in Sassonia. In questa libreria, celebre pel Dioscoride che ancora vi si conserva, pel Milione di Marco Polo, che credo smarrito, e per altri manoscritti di gran pregio, so esservi diversi autografi del Varchi, trasportativi, mi si fa supporre, dalla casa Valori, con molte scritture inedite degli uomini letterati della casa medesima. Altri suoi autografi so essere nell'archivio prepositurale di Montevarchi, intorno ai quali fu letto, non ha guari (dal doti. Cini, se non m'inganno) un discorso erudito nell'Accademia Valdarnese. Ov'oggi sia la copia a penna della sua storia, che i penultimi compilatori del Vocabolario ebbero dal senatore Leonardo Tempi, e gli ultimi dissero trovarsi presso i discendenti di quel collega de' loro antecessori, lo ignoro. Anche di essa peraltro gioverebbe il far ricerca a chi imprendesse una nuova edizione della storia già detta.

E questa nuova edizione mi par veramente desiderabile. Che autenticità abbiano le due prime, nè io so dirlo, nè altri sa dirlo a me. Quella di Leida, procurata da non so chi, si annuncia nel frontispizio qual copia d'un testo irrecusabile, poichè tratto dall'originale dell'autore per opera d'un suo consanguineo. L'antecedente d'Augusta, procurata dal cav. Settimanni (a cui dobbiam pure la pubblicazione delle Storie del Segni e del Nerli) non vanta una sì bella provenienza. Nondimeno, come dice il Poggiali citato dal Gamba, essa è di lezione troppo preferibile all'altra; benchè l'altra, al confronto, offra variazioni ed emendazioni importanti. Or come mai ciò, ove non si suppongano più originali, l'uno più perfetto in alcune, l' altro in altre parti, dai quali poi, non che forse da molti sbozzi, l'autore, potendo dare alla sua storia l'ultima mano, avrebbe tratto quel testo che desiderava lasciare alla posterità? Ciò, che nella posterità può farsi di meglio in vece sua, è di collazionare le più vecchie copie della sua storia con quanto lor corrisponde ne' suoi autografi che ancor ci rimangono, di formarne un nuovo testo, e di dare con esso le varianti di maggior riguardo in una nuova edizione, che poi serva d'esemplare alle future.

La verità, la prudenza, la gravità, la leggiadria, con cui il Varchi ha scritto, meritan ben che gli si renda un tal servigio. Alla verità, com'ei dice nella dedica della sua storia, si sentiva inclinato dalla natura, allettato dall'uso, sforzato dal dovere. Quindi, come apparisce dalla dedica stessa, egli avea in certo modo pattuito con Cosimo di potere dir tutto liberissimamente. Se Cosimo credè che, narrando le cose come furono, occulterebbe almeno i propri giudizi o le proprie affezioni, s'ingannò grandemente. Il Varchi si mostra sempre fedele alla causa, per cui avea militato e poi sofferto l'esilio e la povertà. Ei dice a Cosimo, che l'accarezzava, qualche parola di complimento. Ma narra, senza cercar di scusarsene, d'aver fuggito il suo dominio in compagnia del Giannotti a cui si dichiara amicissimo; non occulta la propria ammirazione per Palla Rucellai, che solo in consiglio si oppose al suo esaltamento; non ha lodi che gli bastino per Andrea Doria, che, potendo insignorirsi della sua patria, preferì di restituirla in libertà, ec. ec. Le lodi del Doria, censura troppo chiara di Cosimo, sono nel libro settimo, e a me sembrano ancor più notabili di quelle del Bruto Toscano, che leggonsi nel quindicesimo, e che tutti gli apologisti del Varchi han ricordata. Esse doveano bastar sole a far cadere di mano la penna a chi chiamò il nostro storico un adulatore. E fu quel medesimo, se ben mi ricordo, che quasi gli diè taccia di maligno per que' motivi stessi, probabilmente, che chiamò il buon vecchio Nardi troppo appassionato. Altri, per scemargli il vanto di coraggioso, disse che i biasimi da lui dati a Clemente e ad Alessandro non suonavano punto ingrati a Cosimo, il quale essendo d'altra linea sentiva per loro una tacita gelosia. E anche a questa sentenza taluno ha fatto eco, obliando che la causa di Clemente e d'Alessandro era pur quella di Cosimo, obliando che Cosimo avea giurato d'essere il vendicator d'Alessandro. Del resto, se la sentenza era giusta, perchè non notare come ardito ciò che il Varchi, pur nel libro quindicesimo, non esitò a scrivere de' tre concetti, utilissimi allo stato di Firenze, che Alessandro avea nell'animo, e che il successore (come apparisce anche da uno de' frammenti del De Rossi, di cui vi parlai nella prima lettera) non si curò punto di mandare ad effetto? Il qua1 passo riguardante Alessandro, ch'ei certo non amava, posto al confronto d'altri ben severi intorno ad uomini, ch'egli prediligeva, sia suggello a quanto ho detto del suo amore della verità. Imparziale verso gli uomini, ei lo fu tanto più facilmente verso le cose, non dissimulando nè il bene che potè mescolarsi a quelle ch'ei reputava cattive, nè il male che alterò quelle che il suo intimo convincimento gli fecea proclamar come buone.

Dopo tutto ciò, non ho d'uopo di avvertire che la prudenza da lui propostasi, come seconda norma allo scrivere, non è già quella che il volgo intende, l' arte cioè di simulare o dissimulare secondo i consigli dell'interesse o della paura. È l'arte d'indagare i vincoli secreti, le cause, le conseguenze degli avvenimenti; al rjual fine ei s'era prescritto un metodo rigoroso, che trovasi fra' suoi autografi, or non mi rammento, se nella Magliabechia o nella Laurenziana. Senz'essere propriamente un uomo di stato, egli, voi ben lo sapete, e per l'indole della fiorentina repubblica, e pel tempo specialmente in cui visse, e per altre sue particolari circostanze, fu non mediocremente versato fra i pubblici affari. Questa condizione, opportunissima a saperne il vero, gli giovò pure moltissimo a ben giudicarne. E tanto appena bisognava ad un uomo nudrito come lui nell'antica sapienza, studiosissimo della nuova, che già vecchio andava ancora cercando nelle scuole de' filosofi, e di tanto acume d'ingegno, qual lo mostrano sigolarmente alcuni suoi scritti, in uno de' quali (il trattato dell'alchimia) so che un giovane matematico, il quale un giorno sarà forse de' primi d' Europa, non esita a dire che si trovano vedute degne di Bacone. Noterei particolarmente nella sua storia le sue vedute sui futuri destini d'Italia, se non fossero già state notate da altri, e non gli fossero comuni con Dante e con Machiavello.

La gravità, quando pure non fosse stata di suo gusto, gli sarebbe stata prescritta dal gusto de' contemporanei, a cui erano sì familiari gli antichi storici della Grecia e di Roma. Avea pensato, anch'io, gli scriveva il Giannotti, di comporre una storia della nostra repubblica dal 27 al 30 , e mi era proposto ad esemplari Tucidide e Salustio. Voi però, avendo per le mani una storia di molti anni, potrete darle altra forma che l'usata da que' maestri, ec. Ma egli certamente non volea dire una forma che non fosse classica; e il Varchi nel suo proemio ha cura di far intendere che studiò particolarmente di conformarsi a Polibio e a Tacito. Di qualunque modo lo abbia fatto, n'è provenuta alla sua storia molta gravità e spesso anche troppa, non avendo egli a narrar sempre né le gesta del Doria, nè la minrabil virtù de' furusciti fiorentini, o la loro generosa risposta a Cesare «degna veramente di quegli antichi italiani, ec. ec.» Ei però non le ha ridicolmente sagrificato alcuna delle particolarità che il suo buon giudizio, più ancora che il suo affetto patrio, gli facea riguardare come importanti. Queste particolarità furono tacciate più volte di soverchia minutezza; e forse, se si trattasse di storia meno speciale, l'accusa non sarebbe ingiusta. Dico forse, perché inclino un poco a quella sentenza che il Sarpi, cioè il primo de' nostri storici quanto all'artifizio, esprime in più luoghi, che ogni storia debb'essere un tutto compito e spiegarsi da sé stessa in ogni sua parte. Né alle spiegazioni deve dar misura l'impazienza di chi sa troppo o cura poco di sapere; altrimenti può avvenire che, anche trattandosi di cose molto note, lascino a chi legge molti desiderii o molte oscurità. Di che ho prova ne' dieci volumi della Storia della francese rivoluzione del Thiers, che ad alcuni, a cui bastano i due volumetti del Mignet, potranno parer troppi, ma ad altri sembran meno del bisogno. Checché sia di ciò, è certissimo che in nessuna storia ci è presentata veramente la vita del popolo fiorentino come in quella del Varchi; e un tale effetto delle molte particolarità, che vi si narrano, ben compensa la noja delle meno importanti. Fra queste voi ben pensate ch'io non comprendo i ragguagli familiari o di minuta statistica, ad esprimere i quali, se il Thiers, che pur non fa professione di classica dignità, ebbe d'uopo, com' ei dichiara, di qualche coraggio, il Varchi l'ebbe d' assai maggiore.

È vero che, ove non potè serbare abbastanza la dignità, si fidò almeno di supplirvi colla leggiadria, dote che nessuno de' critici gli nega (oltre ciò che dicono di lui il Ginguené, il Sismondi ec. or sono da leggersi i giudizi del nostro Ugoni in un articolo della Biografia Universale) e ch'egli dovea conseguire meglio d'ogn' altro. Cultore assiduo della lingua nativa, educato ad ogni più squisita eleganza, ei scriveva di primo getto sì bene, com'oggi molti per avventura sarebbero paghi di scrivere a costo di molto studio. Pure , come attestano i suoi autografi, egli andava mutando e rimutando con assidua diligenza, volendo forse che quelle doti, che gli mancavano a fronte del Machiavello e del Guicciardini, fossero compensate da un altra ch'essi non possedevano. Ė vero però che tanta diligenza, per la quale il suo stile poco guadagnò di concisione e di forza, non fu sempre molto giovevole nemmeno alla leggiadria. Chi almeno preferisce certe grazie spontanee ad altre più studiate, può talvolta ritrovare nei suoi sbozzi maggior piacere che nella stampa della sua storia. Voi argomentatelo da questa prima parte del frammento che ho promesso di trascrivervi, la qual corrisponde a quel passo del libro decimoterzo che nell'indice delle stampe s'intitola: «usanza dei Fiorentini nel carnevale, e insolenza fatta col pallone da più giovani nobili, ec.»

«La vigilia della pasqua di Natale si ragunò nel palazzo degli Strozzi una frotta di giovani con Vincenzio, messer Lione e Ruberto, e dopo alcuno ragionamento si risolvettono a un tratto, poi ch'era piovuto, uscir fuora col pallone, la quale uscita fu principio d'infiniti mali e alla fine della miseranda morte di Filippo. Era in Firenze, tra l'altre, un'antica pessima usanza, che là ne' giorni vicini al carnovale, e spezialmente quando le strade erano molli e fangose, usciva fuori inaspettatamente una moltitudine di giovani mascherati con una camicaccia o altre veste cattive di sopra, e avendo un pallone gonfiato, grande per tre volte una grossa zucca, andavano come infuriati correndo per Firenze (e, mentre davano a esso pallone, non solo imbrattavano chiunque riscontravano, fusse chi si volesse e avesse nome come gli paresse) al canto de' Tornaquinci, in Mercato nuovo, sotto le volte di S. Piero, dal corso de' Tintori, al canto de' quattro Pagoni, e dovunque si vendevano erbaggi facevano danno agli ortolani, e a qualche bottega minuta, se ne trovavano aperte, mandando sottosopra e in terra ciò che trovavano: è vero, che, a fine che la gente avesse qualche tempo a potersi causare e le botteghe, a metter dentro e serrarsi, tuonavano le trombe. Questa usanza, barbara per sé medesima, era venuta (come le cose vanno sempre di male in peggio per la licenzia de' giovani scorretti, i quali si dilettano di far male altrui eziandio senza niuno pro loro anzi bene spesso con danno) a tanta bestialità e pazzia che i giovani, i quali andavano col pallone, ancora che la maggior parte d' essi fussono di buone rase, s'andavano voltolando per lo fango e imbrodolando se ed altri; e con alcune pezzacce line, che tenevano in mano, tutte intrite di broda e d' altre brutture, davano nel viso più dirittamente che sapevano a qualunque veniva loro bene; e a chi si fuggiva correvano dietro infino per le chiese e su per gli altari, e non pure facevano danno agl' erbaggi, ma entravano in quante botteghe trovavano aperte, e mandavano sottosopra e rompevano ogni cosa, e otta per vicenda se ne portavano delle rosette. La quale più tosto villania che scortesia era cagione, prima, ehe di carnovale stavano tutte le botteghe, se non serrate, a sportello, per potere spacciatamente, quando sentivano le trombe o le voci de' fanciulli che gridavano: ecco il pallone, lieva, serra, mettere dentro le robe e salvarsi; poi, che in quel tempo non si portavano grasce in Firenze, poiché i contadini e altri fruttaiuoli e pescivendoli, tra per questo e per tema di non essere zimbellati da' fattori, non si attentavano di venire alla città. E anco bene spesso si facevano per questo conto delle questioni e di male gozzaje. Perché chi era offeso, non potendo vendicarsi allora (benché alcune volte ne erano feriti, poiché molti avevano sotto pugnali) s'ingegnava di conoscerne alcuno, il che era agevolissimo, perché molte volte andavano scoperti, e si vendicava poi a bell'agio, o di giorno alla scoperta o di notte sconosciutamente.

«Usci dunque il pallone fuora di casa gli Strozzi con Vincenzio e con Ruberto, e perché nessuno si guardava, sì per essere il giorno ch'egli era, e sì per non essere ancora di carnovale, trovando le genti sprovvedute e le botteghe aperte e piene, fecero un danno incredibile. Ché solo a un bicchieraio tra ferravecchi, vicino a casa loro, roppero tanti vetri che lo peggiorarono per più di cento fiorini; e a uno speziale tanti alberegli e altre robe, che montavano più di dugento. Il danno de' pizzicagnoli e de' trecconi e d'altri rivenduglioli, con quello de' linajuoli e d'altre botteghe grosse , fu inestimabile. Il magistrato degl'Otto, sentendo questo romore, e parendo loro, com'era, cosa insolita, si regimò in un momento, e diedero commissioni a' lor famigli e altri birri, che tanti ne pigliassero quanti avere ne potessero; e tanto più che a Francesco Vettori, tra gl' altri, e a Fraucescantonio Nori, i quali gli aveano ripresi e sgridati, fu risposto sinistramente e gettato loro adosso il pallone così imbrattato com'era. Gli altri, veggendo venire i famigli d'Otto, si misero subito a fuggire. Vincenzio e Ruberto , sendosi scoperti, stettero fermi, pensando forse che fusse loro avuto rispetto, ond'e' furono presi e menati in prigione. E sebbene non seguì altro contro agl'altri, ed essi furono lasciati senza pena o condannazione nessuna, se non che dovessero rifare lo speziale e Becuccio bicchieraio de' loro danni; nondimeno, perché alcuni volevano farlo caso di stato , dicendo che, non essendo il duca in Firenze, quel romore poteva cagionare in quel tempo di cattivi effetti, e forse essere stato fatto a posta per sollevare il popolo, bisognò che Filippo dolendosi, e dicendo che gli volevano scambiare i dadi, venisse a Firenze a giustificarsi. Onde in lui e nei figliuoli cominciò a nascere nuovo sdegno e sospetto contro il dura, e nel duca nuovo sospetto e sdegno contra i figlinoli e contra di lui, benché ciascuno dissimulasse e facesse la vista di pensare a ogni altra cosa che a vendicarsi.»

Alcune dell'ultime parole, quelle cioè che riguardano l'interpretazione data dai malevoli ad un semplice accidente, spiegano, più di ciò che leggesi nella stampa, com'esso fu principio a gravi mali che finirono colla rovina d'Alessandro e degli Strozzi. Fra questi mali sono principalmente da annoverarsi una grave offesa fatta alla Luisa Strozzi moglie di Luigi Capponi, e la morte infelice della giovane donna. L' offesa, ch' io diceva, le fu fatta nella primavera del 1533, alcuni mesi dopo il caso del pallone; la sua morte avvenne verso la fine dell'anno seguente, allorché i fratelli, per case occorse dopo quell' offesa, erano già stati costretti a fuggire. Ciò raccogliesi dalla storia stampata del Varchi, a cui accresce fede quella del Segni. Ma quando il Varchi scrisse il frammento, di cui ho riferita una parte, e fra poco riferirò il restante, avea la memoria un po' confusa. Par anzi che l'avesse più confusa che all'ordinario, facendo ancor viva la madre dei giovani Strozzi, ch'egli stesso nella storia dice morta nel 28, e attribuendole in un'occasione parole verosimilmente proferite in un'altra. Quindi nessuna meraviglia che taccia pure, come vedrete, avvenir la morte della Luisa subito dopo l'offesa e però innanzi alla fuga dei fratelli, e unisca al caso del pallone questi altri casi più dispiacevoli, che nella stampa sono divisi. Ciò peraltro, che in tal racconto perde l'esattezza storica, è compensato da un maggior interesse drammatico, a fronte del quale appena è da contarsi il piacere che può darvi qualche piccola variante, come quella d'un terzetto di Piero Strozzi, il capriccioso poeta Sciarra, le cui stanze hanno avuto in questi ultimi tempi sì accurate edizioni. Qualche sintassi, che troverete non solo intralciata ma zoppicante, vi guasterà poco il piacere che debbono recarvi le solite grazie della dizione.

«Tornato il duca da Bologna nel principio della quaresima cominciarono in Firenze casi veramente tragici. Per ciò ch'egli, caldissimo di sua natura e in sul primo fiore della giovanezza, ed ebbro della sua fortuna, si diede del tutto in preda alla libidine, e quante donne poteva avere o vergini o maritate o vedove, tante ne voleva: e così si può credere che non solo non gli mancavano molte di quelle, ch'egli desideravi, ma alcune ne gli erano offerte di quelle a cui egli non pensava. Ma due sopra l'altre gli andavano all'animo, la ... moglie di Giuliano di Francesco Salviati, figliuola d' Agostino Chigi ricchissimo mercatante sanese, e la Luisa figliuola di Filippo Strozzi e maritata a Luigi di Giuliano Capponi, la quale era tanto bella e tanto onesta che pareva una maestà a vederla. Ma la .... era innamorata e, come si dice volgarmente, tanto guasta di Francesco d'Antonio de' Pazzi chiamato Ceccone, ch'ella non vedeva né più qua né più là di lui; e Ceccone era in carne e in ossa di Piero, né faceva più qua o più là che si volesse egli. La Luisa era tanto schiva e pudica, che nessuno poteva sperare d'aver da lei pure uno sguardo solo. Avvenne che Piero e Ceccone in su una cena, dove era più per fare onta al duca e scorno a Giuliano, il quale era tutto del duca, che per altra cagione, usarono parole verso la ... e anche qualche atto meno che civile e onesto. Onde Giuliano, il quale aveva, come si dice, il cervello sopra la berretta, per rendere loro la pariglia (e si pensò con volontà non che saputa del duca) un venerdì di marzo, quando si tornava da San Miniato, s'accostò alla Luisa, e in presenza di molto popolo le mise le mani in seno e le tolse un mazzetto di fiori che ella vi aveva. Di questo atto veramente biasimevole prese Piero sì grande sdegno, e tanto volle, o mostrare agl'altri quanto stimasse l'onore, o al duca quanto gli voleva male, che deliberò, ancora ch'ella innocentissima fusse, di farla morire, dubitando che il duca per averla non si volgesse o alla forza o agl'inganni; e eon crudeltà da non credersi le fece dare il veleno. Andò la voce ch'ella, nel mangiare un'insalata di raperonzoli, aveva ingoiato un bruco velenoso, il quale le aveva roso e bucato le budella. E Piero, ché Piero e non il padre o fratelli faceva ogni cosa, perché si sapesse per tutto ch'essa era stata avvelenata, la fece sperare a' medici (e chiunque volle potette vedere le budella forate) e ciò seguitando la falsa opinione e barburissimo costume di coloro, i quali oggidì, mentre vogliono mostrare di tener conto dell'onore, commettono scelleratezze vergognosissime e degne d'eterna infamia. Né gli bastando così empia ferità, ordinò a Vincenzio suo fratello e a Tommaso chiamato Masaccio Strozzi, giovane manesco e da commettere ogni tristizia (il quale fu poi, per rimunerarlo di questa opera, fatto fare cavaliere di Malta da messer Lione) che sfregiassero e storpiassero Giuliano, il che essi fecero , avendolo aspettato una sera imbacuccati dalla piazza delle Pallottole, e quivi datogli due grandissime ferite una in sul viso e l'altra in una gamba.

«Nessuno potrebbe immaginare quanto dispiacesse al duca l'uno e l'altro di questi due atti. Ma dissimulando il primo, di aver Piero attossicata la sua sorella, sebbene questo gli coceva più, si fermò in sul secondo e si dispose di vendicarsi sotto spezie di fargli paura per la via della giustizia. Egli, saputo il caso, montò subito a cavallo e andò a visitare Giuliano, e la mattina per comandamento suo furono sostenuti Piero e Ceccone in palazzo nella camera del capitano de' fanti, perché , non si sapendo chi avesse commesso cotale maleficio, si pensava da ognuno che fossero stati essi due. Voleva il duca che fossero esaminati con tortura, e perché non gli fusse rotto la testa se ne andò a Pisa. Di questa presura si fece per tutto Firenze un gran bù bù, e se ne scrisse subito in posta al papa più lettere. Gl'Otto, tra' quali era Palla Rucellai, non che dare della fune a Piero, il che Palla disse apertamente che non farebbe mai se il duca stesso non gliela comandasse, egli fuggiva il disanimarli a parole, aspettando da savio che facesse quell'uficio un altro, per non si fare malvolere da Filippo e dagl'amici e non nimicarsi casa così potente, tanto che Niccolò del Troscia, il quale andava per la minore, s' offerse d'andar egli a disaminarlo. Ma Piero, dandogli del tu, e rispondendogli ogni cosa al contrario, per ischerno l'uccellò di maniera, ch'egli con tacito riso degl'altri se ne tornò da essi tutto scorbacchiato, dicendo ch'egli si faceva beffe dell'uficio. Piero l'altra mattina mandò loro un sonetto in burla, chiedendo, perché fù la domenica dell'ulivo, che gli mandassero per ser Maurizio una frasca, perch' egli viveva di quella devozione tutto l'anno, e l'ultimo verso diceva: Son io però quel ch'a in custodia gl'orti! Il papa, sollecitato da Francesco Del Nero, scrisse che fussino lasciati senza farne altra dimostrazione. Ma, perché il duca si stava a Pisa senza rispondere cosa nessuna, gl'Otto non sapevano che si fare. Pure alla fine, essendo venute nuove lettere di Roma, furono licenziati amenduni; e Piero, oltre il sonetto, lasciò scritto col carbone nel muro della camera questi tre versi, scritti come soleva le più volte alla plebea: Qui Piero Strozzi a mattana sonò, — Perché volevon che dicesse sì; — Lui, noll'avendo fatto, disse nò. — Voleva Piero, per maggiore scorno del duca, cavalcare subito con Ceccone a Pisa per ringraziarlo, ma non fu lasciato, dubitando che il duca, come iroso e appassionato, nollo manomettesse. E Benedetto Varchi, il quale era amicissimo dell'uno e dell'altro, pregato da madonna Clarice sua madre, la quale ancora vive, lo confortò ma senza forza a lasciar andare così fatte novelle, e non si mettere in così manifesto risico e pericolo, donde non si poteva alla fine guadagnare altro che danno e vergogna per sè e per altri. Non andò molto che Piero, essendo Filippo andato in Francia, come si dice, dubitando di quello che agevolmente avvenuto gli sarebbe, presa più tosto che ottenuta licenza, si partì, menandone seco Ceccone, di Firenze, dove né l' uno né l' altro ritornarono mai più».

La morte di Luisa Strozzi è stata, come avrete udito, presa a soggetto d'un nuovo romanzo, che va ora componendo l'autore della Monaca di Monza. È impossibile parlare della morte di Luisa senza rappresentarsi quasi in prospetto quella di Filippo suo padre, che, s'io fossi poeta, avrei presa da un pezzo a soggetto di tragedia. Nel sistema, che obbliga a trasformare i personaggi moderni in antichi eroi, o piuttosto in giganti morali di non so quale favolosa età, un tal soggetto sarebbe intrattabile: non ne uscierebbe che un pendant alla tragedia, che una scrittrice inglese (miss Mitfort, se ben mi ricordo) compose poco fa sulla morte di Cola Rienzo. Nell'altro sistema, che oggi va prevalendo, e a cui si dà il nome di storico, permettendosi la schietta pittura d'un carattere come quello di Filippo, potrebbe uscirne cosa bellissima e nuova, quando vi mettesse mano un vero poeta. E forse non è lontano dal farlo chi ha scritto di fresco il Giovanni di Procida, non per anco uscito in luce, ma per cui già parmi vedergli raddoppiata la corona che gli meritò il Foscarini. Alcune lettere inedite di Filippo, la nota vita di quest'uomo celebre con postille parimenti inedite ch'egli da qualche mese ha acquistato, la rocca di Montemurlo, ch' ei sale spesso a visitare da un suo ritiro poetico a cui sorge in faccia, mi son quasi pegno che il mio forse non sia una vana imaginazione. In una di queste visite anch'io un giorno gli sono stato compagno. La rocca, or posseduta da un signore di Pistoia e un tempo da' Nerli, che vi accolsero Filippo co' principali fuorusciti, è prcssapoco nello stato in cui questi la lasciò nella giornata farsalica della Repubblica Fiorentina. Gli stretti e tortuosi sentieri, che vi conducono, ed ove ancor si veggono avanzi d'antiche fortificazioni, mi aveano, per le memorie in me ridestate, già disposto a riceverne la più melanconica impressione. Questa però doveva essere ancor più melanconica di quel ch'io potessi imaginarmi. Usciva dalla rocca un canto lamentevole e monotono, a cui faceva tenore lo strepito d'un mosso telaio. Io porgeva attento l'orecchio, quasi parendomi che in quel canto si piangesse il destino di Filippo e della Repubblica. Ma il canto, composto verosimilmente in tempi assai posteriori, era canto devoto, in cui parea narrarsi qualche gran colpa e qualche gran castigo, forse di donna appassionata, o d'illustre prepotente. La casiera, che ingannava con esso la sua solitudine nella rocca deserta, non aveva forse mai udito il nome di Filippo o de' suoi. Essa ci condusse alcun poco per loggie e camere oscure, ed indi sino a' merli, d'onde verso tramontana ci vedevamo a' piedi un resto di torre, e in prospetto, al di là d'alcune valli e d'alcuni poggi, un monticello sormontato da una croce. Il resto di torre era al dir suo una piccionaia; il monticello, d'onde, a quel che si crede, si salvò già Piero Strozzi, che poi combattè a Siena le ultime battaglie de' repubblicani in Toscana, un luogo sacro per non so quale miracolo, e perciò visitato ogn'anno in un giorno solenne da' popoli all'intorno. Quai riflessioni le cose udite — le cose vedute; — tante memorie — tanto oblio — mi facessero fare, non ho bisogno di spiegarlo. Quando scesi dalla rocca anch'io avrei potuto scrivere, se non versi di tragedia, qualche pagina di doloroso romanzo. Ma zitto, vi prego, che non ne sappian nulla i bibliotecari, i quali trovandomi tra la polvere de' codici hanno già troppe ragioni di riguardarmi come un intruso.

M.


Lettere di Giuseppe Montani


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