LETTERE - Libro II - 325

 

Sigismondo Fanzini è governatore di Casale Monferrato per conto dei Gonzaga. Come si evince dalla lettera, i suoi rapporti con Pietro Aretino non sono idilliaci. La protezione che il funzionario concede a Nicolò Franco che si è allontanato dallo scrittore è la probabile causa dei dissapori, che l'Aretino estrinseca anche ne "Le carte parlanti": "Il Fanzino (unico a uccellare a i partiti co'l tedio, il quale discopre le carte con moto di lumaca, onde s'impatta o si vince) per aver dato a la posta una collana falsa, è suto casso dal reverendissimo di Mantova, con molta soddisfazione di Casalmaggiore".

 

A Sigismondo Fanzino

Io mi rallegro con vostra altezza de la lode e de l’onore che la magnanimità de l’ambizion di voi ha saputo procacciarsi. Io parlo ciò a proposito di quel Franco che in memoria d’un mio servitor porta  isfregiato il viso. Egli è veramente degno del giudizio che vi avanza l’avervi saputo collocare appresso il bene beneventan poeta; onde non è più dubbio che vi farete immortale. Ma è possibile che non vi accorgiate che, ancora che le virtù che gli pare avere fusser grandi come i vizi che egli ha, non sarieno atte a spontarvi fuor del nome due dita d’onore? Il tanto pazzo quanto ignorante, il non men superbo che povero e lo ingrato come presuntuoso, scrivendo di voi ha preso un suggetto molto conforme a la sua pedanteria; e mentre cerca di glorificarvi nel modo che si vedrebbe se le sue inezie fosser lette, va insalando le sciocchezze che l’han tenuto, che lo tengono e che lo terranno in cenci di continuo, coi detti rubbatimi da lo stile che mi indorò, che mi indora e che me indorarà sempre. Certo che il disutile mi sa benissimo invidiare e malamente imitare; talché, nel creder di trasformarsi tuttavia in me, rimane sempre se stesso. Onde era meglio per lo sciagurato lo imparare a esser buono col mio essempio che volere insegnar ad altri a esser tristo col suo. Ma poniam da parte ciò che di me anfana quella bestia che ne lo affacchinarsi di viver in carte muor da fame in carne. Parvi uffizio di un che regge il Monferrato (benché a torto) il sopportare che si stampi la rabbia con cui sì fatto cane (se potesse) morderia la divinità di Carlo e di Ferdinando? Ecco, don Lope di Soria serba non solo i versi volgari e latini composti in defension di ciò da qualunque costì in Casale ha saputo metter parole insieme, ma le lettre che in compagnia di cotali sporcizie esso mandava a quel Franceso Alunno dal quale ricorse quando la madonna a cui intitolò il Tempio d’Amore lo fece premiare dai contanti di ducento bastonate eroiche. E perché non affermiate che tali merde sieno impresse in Turino come dice la sottoscrizione, anco una opera del Carretto, stampata dal medesimo carrattero, è in mano al signor prefato. Benché in ciò non si dee imputar voi, che sete chi sete, ma il cardinale che è chi egli è. Imperò che la gran severità de la sua giustizia, che non si è curata, strangolando e decapitando il Bologna e il sindico, di decapitare e di strangolare la fama di chi gli fece tali, conporta ne lo stato di lui i dispregi di sì nobil re e di sì magnanimo imperadore. Or, per tornare a noi, io vi giuro per la strenua vigliaccaria del tesoriero di cotesto dominio, che tosto vedrete se io so saziarvi di ciò che i vostri affari vanno cercando. 

Di Vinezia, il 11 di Marzo 1542.

Pietro Aretino

 

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